L’analisi del genoma di una semplice, primitiva creatura marina rivela un’inattesa complessità. E riapre il dibattito sul suo posto nell’albero evolutivo.
“Placca pelosa e attaccaticcia”: tradotto dal latino scientifico, Trichoplax adhaerens, il nome con cui, nel 1883, lo zoologo tedesco Franz Eilhard Schulze battezzò la bestiola da lui scoperta sulle pareti di un acquario, non suona molto lusinghiero. Ma calza bene a questo piccolo disco piatto – due strati di cellule con un po’ di fluido in mezzo – che si muove agitando ciglia e ha la fastidiosa abitudine di restare incollato a vetrini e pipette. Lontano dalle cronache scientifiche per quasi un secolo dopo la sua scoperta, attirò di nuovo l’attenzione dei ricercatori negli anni Settanta del secolo scorso, quando se ne trovarono popolose comunità tra le radici delle mangrovie sulle coste tropicali di tutto il mondo. “Creature enigmatiche”, le chiama Daniel Rokhsar, professore di Genetica all’Università di Berkeley, che ha guidato il sequenziamento e l’analisi del genoma del Trichoplax, studio pubblicato ora sulla rivista Nature.
I biologi utilizzano varie categorie per mettere ordine nell’intricata complessità della vita. Il Phylum è una delle categorie più vaste, appena sotto i grandi Regni (Animalia, Plantae, Fungi, Protista, Archaea, e Eubacteria secondo una delle divisioni più diffuse). Noi Homo sapiens apparteniamo al Phylum Cordata, insieme ad altre migliaia di specie che possiedono una corda dorsale – nei vertebrati, la colonna vertebrale. Il Trichoplax, invece, è l’unica specie nota in un Phylum tutto suo, Placozoa, “animali piatti”: di una seconda specie, Treptoplax reptans, che nel 1896 lo zoologo napoletano Francesco Saverio Ponticelli scrisse d’aver osservato nel golfo della sua città, si sono perse le tracce. Oggi i biologi credono che non sia mai esistita.
Per quello che se ne sa, dalle osservazioni in laboratorio, i Trichoplax si arrangiano con quattro tipi cellulari in tutto. Niente sistema nervoso, niente cellule sensoriali, niente muscoli. Non hanno apparato digerente: formano uno stomaco temporaneo racchiudendo il cibo e digerendolo all’esterno. Sembrano riprodursi solo per fissione: due o tre parti dell’animale prendono direzioni opposte e si conquistano, con uno strappo, l’indipendenza.
Dietro l’apparenza di questa vita semplice, tuttavia, i ricercatori hanno scoperto un codice genetico complesso. Hanno identificato circa undicimila geni (contro i trentamila dell’uomo), e di questi otto su dieci sono in comune con gli Cnidari – il Phylum degli anemoni, dei coralli e delle meduse – e con i Bilateri, gli animali di cui puoi distinguere la fronte dal retro – noi umani compresi. Il Trichoplax non ha neuroni, ma alcuni di questi geni sono associati, in animali superiori, a funzioni neurali. E con gli umani condivide la grande maggioranza dei suoi introni, le regioni di Dna che non codificano proteine.
Questa ricchezza genetica si traduce nella capacità di fabbricarsi strumenti di segnalazione e regolazione utili, tipicamente, nello sviluppo embrionale – e una creatura che si riproduce facendosi in pezzi se ne farebbe poco, a meno che i Trichoplax, fuori dai laboratori e lontano da ricercatori ficcanaso, non godano una vita sessuale segreta, e non passino per stadi di vita ancora ignoti. Analisi genetiche sulle popolazioni hanno messo in evidenza una variabilità sorprendente, e anche questo suggerisce che nel loro ambiente naturale ci sia riproduzione sessuata e, quindi, ricombinazione. La genetica potrebbe ripopolare il loro desolato Phylum di specie che finora sono sfuggite, perché a guardarli da fuori i Trichoplax sembrano tutti uguali.
Il sequenziamento del genoma non dà una risposta definitiva alla lunga controversia sulla posizione dei Placozoi nell’albero – o cespuglio – evolutivo, ma sembra escluda almeno l’ipotesi che siano delle forme semplici di Cnidari. Gli autori dell’articolo sono prudenti, e sottolineano che molta ricerca sarà ancora necessaria per chiarire la questione: ma se il genoma conserva caratteristiche che oggi si trovano sia negli Cnidari sia nei Bilateri, ne esce rafforzata l’idea che possano essere “fossili viventi” delle primissime fasi dell’evoluzione animale, prossimi all’antenato comune, al punto di separazione tra questi due grandi gruppi di esseri viventi. Mansi Srivastava, prima autrice dell’articolo e dottoranda sotto la supervisione di Rokhsar, conclude: “Il Trichoplax è un buon rappresentante di genoma ancestrale, e getta luce sulla struttura genetica dell’antenato comune, vissuto 600 milioni di anni fa”.
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La ricerca è pubblicata sulla rivista Nature (Mansi Srivastava, Emina Begovic, Jarrod Chapman, Nicholas H. Putnam, Uffe Hellsten, Takeshi Kawashima, Alan Kuo, Therese Mitros, Asaf Salamov, Meredith L. Carpenter, Ana Y. Signorovitch, Maria A. Moreno, Kai Kamm, Jane Grimwood, Jeremy Schmutz, Harris Shapiro, Igor V. Grigoriev, Leo W. Buss, Bernd Schierwater, Stephen L. Dellaporta and Daniel S. Rokhsar, The Trichoplax genome and the nature of placozoans, Nature 454, 955-960, 21 August 2008)
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