Recenti studi reinterpretano l’anatomia di questo rettile fornendo nuove indicazioni sul suo stile di vita
Rettile acquatico o terrestre? Oggi la scienza può rispondere a questi ed altri quesiti sul più curioso tra i rettili fossili italiani.
Tanystropheus longobardicus è un protorosauro noto alla paleontologia già dai primi anni del secolo scorso, che si distinse da tanti altri reperti fossili datati al Triassico medio (235 milioni di anni fa) per lo straordinario lungo collo, costituito da 12 vertebre estremamente allungate. Per lungo tempo gli scienziati si sono interrogati sulle modalità di vita di questo animale, ma oggi, dopo un lustro di meticolose ricerche, sono possibili nuove considerazioni, grazie anche ai reperti in eccezionale stato di conservazione recentemente scoperti.
Rinvenuto nella formazione degli Scisti Bituminosi di Besano (Varese) agli inizi del XX secolo, Tanystropheus (letteralmente con le vertebre a nastro) si distingueva per il collo che da solo rappresenta la metà della lunghezza corporea. Andato distrutto l’olotipo durante la II guerra mondiale, è stato possibile effettuare nuovi studi grazie ai due esemplari conservati presso il Paläontologischen Institut und Museum der Universität di Zürigo, e soprattutto ai nuovi reperti estratti dal sito denominato Sasso Caldo, lungo le pendici del Monte San Giorgio, al confine con la Svizzera. “Si tratta di due scheletri in larga parte articolati – ci dice la dottoressa Stefania Nosotti del Museo civico di Storia naturale di Milano, curatrice dello studio – e di un piede isolato ascrivibili ad individui di piccola taglia e di resti frammentari di individui di grandi dimensioni, in particolare un cranio associato ad alcune vertebre cervicali, una vertebra dorsale isolata e frammenti di coste cervicali. Questi fossili vanno ad aggiungersi a quello proveniente dai Calcari di Meride, T. meridensis, che noi riteniamo in realtà appartenere alla specie longobardicus”.
Le zampe corte ma dai lunghi piedi e la particolare conformazione anatomica del collo ci descrivono un animale ben adattato alla vita acquatica, anche se chiaramente evolutosi da antenati terricoli. “Nuotava agilmente nelle basse acque di laguna col movimento ondulatorio di coda e tronco e si aiutava con tutta probabilità pinneggiando con i lunghi piedi posteriori”, spiega la Nosotti. Non è escluso però che potesse salire sulla terra ferma per brevi periodi, forse in coincidenza della stagione riproduttiva per la deposizione delle uova. Anche la particolare dentatura degli esemplari giovanili, formata da elementi tricuspidi, è stata reintepretata: prendendo a paragone i moderni pinnipedi (foche, otarie) si può supporre ragionevolmente che gli servissero per catturare e mangiare piccoli pesci, molluschi e calamari, se non addirittura per triturare i gusci di piccoli crostacei: a sostengo di ciò alcuni resti stomacali conservati negli esemplari svizzeri.
La perfetta conservazione del cranio ha poi consentito agli studiosi di rivelare che l’occhio era protetto dalla sclera, un anello osseo all’interno dell’apertura dell’orbita, oltre che effettuare una ricostruzione tridimensionale della testa dell’animale con un alto grado di attendibilità. Infine, il lungo collo era rigido ma consentiva movimenti laterali e, parzialmente, verticali, fungendo con tutta probabilità da timone per variare la rotta.
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