Nel sangue di trentadue centenari vivono ancora le difese contro l’influenza spagnola del 1918. In laboratorio, i loro anticorpi hanno salvato i topi dal contagio.
Nel film Titanic gli esploratori incontrano un’anziana sopravvissuta, Rose, sperando li metta sulle tracce di un leggendario diamante. I trentadue vecchi, alcuni ultracentenari, radunati da Eric Altschuler, dell’Università del New Jersey, sono sopravvissuti a una diversa, famigerata tragedia del secolo scorso, e anche loro custodiscono un prezioso segreto. Nel 1918 – hanno ricordato davanti al ricercatore – nel pieno della più devastante pandemia che si ricordi, la Grande Influenza, la Spagnola, che uccise da 20 a 50 milioni di persone, condivisero il tetto famigliare con un parente malato. Sono stati esposti al virus, e nel loro sangue, dopo quasi un secolo, sono ancora in servizio attivo i veterani di quella battaglia contro l’infezione.
Nel 2005, Jeffery Taubenberger, dell’Istituto di patologia delle forze armate statunitensi, dopo anni di tentativi andati a vuoto riuscì a ricostruire la sequenza genetica del virus dell’influenza del 1918. Aveva recuperato il virus dai tessuti di una donna morta nell’epidemia e seppellita nel permafrost dell’Alaska, un suolo che resta permanentemente gelato sotto la superficie. Terrence Tumpey, del Centro per il controllo delle malattie ad Atlanta, ricreò poi il virus, preparandone dieci fiale, ognuna contenente milioni di particelle infettive.
Resuscitare un patogeno tanto temibile sollevò infinite polemiche, ma è grazie al loro lavoro che, nello studio pubblicato ora on-line dalla rivista Nature, Christopher Basler, professore di microbiologia all’Università Mount Sinai, ha potuto mostrare come i campioni di sangue, che Altschuler ha raccolto dai trentadue anziani, sono in grado di riconoscere e contrastare l’antico nemico, il virus del 1918.
Un altro autore dello studio, James Crowe dell’Università di Vanderbilt, è poi riuscito a isolare, da sette tra questi campioni, linfociti B capaci di produrre anticorpi che riconoscono precisamente l’emoagglutinina, una proteina superficiale, del virus della Spagnola, oltre quella, geneticamente simile, di una influenza suina del 1930. Gli anticorpi ignorano, invece, le emoagglutinine di ceppi più recenti. Crowe ha poi fuso i linfociti con cellule tumorali, “immortali”, per farle funzionare come “fabbrica” di anticorpi.
Terrence Tumpey, il ricercatore che ha richiamato in vita il virus, ha infine sperimentato l’efficacia terapeutica degli anticorpi, infettando alcuni topi. I topi lasciati a sé stessi sono morti, come quelli curati con basse dosi di anticorpi: questi ultimi sono però sopravvissuti più a lungo. Una dose superiore di anticorpi, somministrata un giorno dopo l’infezione, ha salvato gli altri.
Le difese immunitarie, tipicamente, diventano più deboli con l’età, ma, commenta Crowe, “questi anticorpi sono tra i più potenti mai isolati contro un virus”. Non è ancora chiaro cosa abbia reso l’influenza del 1918 un omicida tanto letale. E se, come avvertono gli epidemiologi, l’arrivo di una nuova pandemia influenzale è solo questione di tempo, gli autori dello studio ricordano che tutto quello che impariamo sulla Grande Influenza può aiutarci a programmare difese per il futuro: “le nostre scoperte”, dicono, “potrebbero portare a una cura per un nuovo ceppo simile a quello del 1918”.
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