La mostra "Blow-up, Immagini dal nanomondo" progettata e realizzata dal Centro di ricerca S3 (INFM-CNR) di Modena, regala un tuffo nella nanomateria, dove gli oggetti sono grandi, o meglio, piccoli un milionesimo di millimetro. Scienza Esperienza ha intervistato Elisa Molinari, direttrice del Centro S3 di Modena e ideatrice della mostra.
Immaginate di entrare nella materia, di poter gettare uno sguardo lì dove neanche i microscopici ottici riescono ad arrivare. Cosa vedete? Confrontate ora la vostra immagine con quelle di Blow-up. È così che immaginavate il nanomondo?
Elisa Molinari, direttrice del Centro S3 di Modena e ideatrice della mostra, racconta come sono nate queste immagini.
Sono molecole di DNA, nanotubi di carbonio, modulazioni del campo magnetico, eppure le immagini di Blow-up ricordano paesaggi di mondi sconosciuti, particolari di fondi marini fantastici e creazioni bizzarre di un illustratore pop art. Come e dove si collocano queste immagini nel panorama della ricerca scientifica?
Le immagini di Blow-up provengono dai laboratori della ricerca. Nascono dalle esigenze di chi fa scienza, poi, solo dopo, curate e rielaborate dalla fotografa Lucia Covi, sono divenute elementi di arte visiva. Negli ultimi anni le immagini, soprattutto le belle immagini, sono sempre più presenti nella ricerca scientifica: sulle copertine delle riviste specializzate o affiancate alle pubblicazioni. Nelle nanoscienze, in particolare, l’attenzione verso le immagini nasce probabilmente dall’interazione delle discipline cosiddette “dure” (fisica, chimica ecc.) con la biologia, dove le immagini sono da molto tempo usate regolarmente per comunicare i risultati stessi delle ricerche nella comunità scientifica.
Per metter a fuoco un atomo ci vuole però una tecnologia un po’ più complessa di quella necessaria in molti campi della biologia. C’è bisogno di una sorta di macchina fotografica quantistica…
In un certo senso. In realtà si tratta di strumenti come i microscopi elettronici, microscopi a scansione di sonda o a forza atomica: oggetti molto diversi dalle comuni macchine fotografiche, ma che possono fotografare gli oggetti piccolissimi proprio grazie ai principi della meccanica quantistica. All’inizio del Novecento, infatti, i fisici hanno notato che quando si osserva la materia su scale piccolissime come quelle atomiche, le particelle che la compongono hanno una doppia natura: a volte si comportano come se fossero delle minuscole biglie, altre volte invece come se fossero dei raggi di luce. È su questo principio, in particolare, che lavorano i microscopi elettronici.
In che modo?
Per illuminare un soggetto questi microscopi utilizzano un fascio di elettroni anziché il solito fascio di luce. La lunghezza d’onda della luce è grande se confrontata con oggetti nanoscopici, quindi non è in grado di distinguerne i dettagli. Anche gli elettroni, come le altre particelle quantistiche, in alcuni casi si comportano come un’onda, ma possono avere una lunghezza molto piccola, così piccola da poter vedere gli oggetti nanometrici. Esistono poi i microscopi a scansione di sonda. Questi strumenti si comportano come la puntina di un giradischi che scorrendo su un disco di vinile rivela la registrazione che vi è impressa. Solo che nel nostro caso la sonda avverte i rilievi o altre proprietà della superficie su cui scorre.
E invece di produrre suoni e musica la puntina di questo giradischi quantistico crea delle immagini…
Sì. Inoltre da uno stesso oggetto si possono creare immagini diverse a seconda della proprietà che vogliamo osservare: la punta può agire come una sonda che scorre meccanicamente sulla superficie, permettendo così di disegnare dei veri e propri rilievi topografici del materiale. Altre volte invece la puntina funziona come una minuscola bussola capace di sentire e registrare le proprietà magnetiche del materiale. In questo modo, con l’aiuto dei calcolatori, si possono costruire diverse mappe di uno stesso territorio.
Alcuni dei fotogrammi di Blow-up, ad esempio le Nanotrappole per elettroni, mostrano nanostrutture costruite dagli scienziati all’interno dei materiali. Come e perché modellare la materia quando è centomila volte più piccola di un capello?
Questo è forse uno degli aspetti più affascinanti della nanoscienza. Gli strumenti di laboratorio, infatti, permettono non solo di vedere nell'ultrapiccolo ma anche di realizzare costruzioni, sondare e organizzare la materia – spesso farla auto-organizzare - , rendendo così gli scienziati architetti del nanomondo. In questo modo si esplora un campo di ricerca, quello delle nanotecnologie, giovane, nato da solo circa venti anni, ma tra i più promettenti. Lo scopo è indagare la natura dei fenomeni quantistici, costruendo dei nano-laboratori che permettono di osservarli, ma anche progettare dei materiali con caratteristiche del tutto nuove e sorprendenti: che già oggi hanno applicazioni importanti, e che secondo molti introdurranno novità rivoluzionarie nell’elettronica, nella biomeicina, nelle telecomunicazioni, nelle ricerche sull’ambiente e l’energia.
Le immagini della mostra sono molto diverse da quelle che generalmente appaiono nelle riviste quando si parla di nanotecnologia. Perché?
Quasi sempre le immagini che accompagnano articoli di nanoscienza rappresentano nanorobot che navigano tra i globuli rossi delle nostre vene, nanonavicelle che con minuscole pinze tagliano o modellano le cellule. Forse per raccontare la nanoscienza al pubblico non è necessario ricorrere a questo tipo di illustrazioni, toccanti sì, ma finte. Fin dalle prime discussioni con Maddalena Scandola, che ha coordinato la mostra, una delle idee che ci ha ispirato nasceva da una sfida: quella di costruire un’alternativa all’immaginario fantascientifico, a volte anche un po’ inquietante, che si rischia di costruire intorno alla nanotecnologie. Le nanotecnologie sono un campo nuovo e tutto sommato non ancora molto conoscito nel gradne pubblico; forse, pensavamo, in questa fase c’è spazio per influenzare il modo in cui è percepito e comunicato. Le immagini di Blow-up, nate nei laboratori, sono il tentativo di creare un corto circuito tra i pubblici che costituiscono la società e che guardano curiosi la scienza e il mondo reale della ricerca.
La conclusione del “caso Englaro” non chiude la questione spinosa della legge sul testamento biologico che in Italia ancora manca e anzi, se come è probabile, verrà votata in questi giorni una legge circoscritta unicamente all'alimentazione e all'idratazione artificiale dei pazienti incapaci di provvedere a se stessi, si rischia di cadere nel caos più assoluto. Come spiega Mario Riccio, medico “Che ha fatto la volontà di Piergiorgio Welby” come recita il titolo di un suo libro – e che è stato assolto l'anno scorso dall'accusa di “omicidio consenziente” - non saranno solo i cittadini a farne le conseguenze, ma anche i medici che si troveranno ad affrontare situazioni sempre più complicate e pazienti sempre meno fiduciosi.
Il caso Englaro - Beppino Englaro il padre di Eluana, una donna in coma per 17 anni, dopo varie battaglie legali ha ottenuto la sospensione delle cure che tenevano in vita la figlia scatenando così la forte opposizione da parte del Governo Italiano -, ha messo in evidenza la necessità di una legge per il testamento biologico in Italia. Il rischio, o la certezza visto il disegno di legge che dovrebbe essere approvato a breve, è che nella fretta si finisca per far passare un provvedimento parziale e che limiterà la libertà di scelta di ogni cittadino. Con Giovanni Boniolo, filosofo della scienza esperto di bioetica e coordinatore del dottorato in “Foundation of life sciences and their ethical consequences” abbiamo discusso della deriva italiana in fatto di autodeterminazione del paziente.
Il Large Hadron Collider è un dispositivo lungo 27 chilometri situato a circa 100 metri di profondità al confine tra Francia e Svizzera. Al suo interno i fasci di protoni corrono a velocità della luce. In alcuni punti la temperatura è da brivido, quasi 270 gradi sotto zero. Ma quando i protoni si scontrano la temperatura sale fino a diventare 1000 miliardi di volte maggiore di quella al centro del Sole. I suoi numeri sono da record: LHC oggi è la macchina più potente e la fabbrica di informazioni più grande del mondo. Il suo obiettivo principale? Trovare una particella: il bosone di Higgs. Maria Curatolo, responsabile per l’INFN dell’esperimento ATLAS, spiega a Scienza Esperienza gli obiettivi degli esperimenti di LHC.