I canali che si vedono sulla superficie del pianeta Marte potrebbero non essere solo il frutto di fiumi che in passato scorrevano sul pianeta. Una nuova ricerca attribuisce la topologia della superficie del pianeta anche a "fiumi di sabbia".
Non solo acqua alla base dei canali che si possono osservare sulla superficie di Marte: alcuni infatti potrebbero essere il risultato di frane e movimenti di veri e propri "fiumi di sabbia". Lo sostiene Troy Shinbrot della Rutgers University del New Jersey (Usa), in un articolo pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.
La costruzione di letti di scorrimento è opera dei corsi d'acqua sulla terra, ma non è detto che sia così anche per Marte. Le rocce marziane sembrano essere molto più robuste dei quello della terra perciò i processi di erosione e di formazioni dei canaloni può essere stato molto più lento o determinato da processi molto diversi da quelli che si possono osservare sulla terra.
In questo studio gli scienziati hanno riprodotto le condizioni della forza di gravità su Marte, che è più bassa del 38% rispetto a quella terrestre, e hanno seguito il comportamento della sabbia. In queste condizioni di gravità con pressione atmosferica minore di 5 Torr, infatti, la sabbia si comporta come un fluido per via di una riduzione della forza di attrito.
Sulla base dei dati così raccolti i ricercatori hanno proposto un modello secondo cui molti dei canali che si possono vedere su Marte non sono stati scavati da corsi d'acqua ma dallo scorrimento più veloce dei granelli di sabbia sulla superficie del pianeta. Gli effetti infatti porterebbero alla comparsa di canali molto simili a quelli scavati dal percorso di una massa d'acqua.
Unendo queste indicazioni ai dati raccolti dalle sonde Mars Rover della Nasa e Mars Express dell'Esa che hanno evidenziato la presenza di acqua su Marte, è possibile che alcuni canali osservati siano il risultato del lavorio dell'acqua, mentre altri della sabbia.
Potrebbero sostituire i circuiti elettronici e trasformare gli attuali pc in pezzi da museo. Grazie cristalli particolari messi a punto al Mit a Boston si aprono prospettive per nuovi circuiti che funzionano a fotoni.
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