Uno studio recente dimostra che l'evoluzione del linguaggio ha forti basi culturali
Appreso o innato: il dibattito sul linguaggio umano è ancora lontano dal trovare una battuta d'arresto. Da decenni gli scienziati sono divisi fra chi ritiene che la base dei nostri comportamenti linguistici poggi principalmente su informazioni codificate nel nostro DNA e chi invece crede che la ricchezza della comunicazione dipenda principalmente da quanto un individuo impara durante la sua vita – e quindi quanto viene trasmesso di generazione in generazione per via culturale.
Uno studio recentemente apparso sulla rivista PNAS sembra supportare questa seconda ipotesi, anche se in realtà a una seconda lettura offre interessanti spunti per una confluenza delle due posizioni.
La ricerca condotta da un gruppo dell'University College di Londra insieme ad alcuni scienziati statunitensi infatti si basa sull'effetto Baldwin, chiamato anche “evoluzione ontogenetica”: una caratteristica o un tratto sviluppato durante la vita di un singolo individuo come risposta a fattori ambientali (quindi “appreso”) può gradualmente venire incorporato nel codice genetico della specie, perché gli individui che hanno una forte predisposizione ad acquisire il tratto nel corso della loro vita hanno un vantaggio evolutivo. Man mano che passa il tempo la pressione ambientale necessaria a far comparire il tratto diventa sempre minore e fino a che si annulla e la caratteristica è definitivamente codificata nel DNA.
Secondo Nick Charter, autore dello studio basato su simulazioni modellate al computer, proprio questo meccanismo sarebbe responsabile della nostra disposizione ad apprendere il linguaggio. I geni che codificano proprietà specifiche del linguaggio potrebbero in realtà essersi evoluti insieme al linguaggio stesso. Le condizioni sempre mutevoli dell'ambiente linguistico, convenzioni culturali che cambiano rapidamente, infatti non si adattano ai tempi e alla necessaria stabilità ambientale che la selezione naturale richiede per stabilizzare una mutazione genetica nel codice di una specie.
Se effettivamente le basi del linguaggio fossero codificate in maniera stretta nel codice genetico, allora popolazioni che si sono divise da molto tempo (pensiamo agli aborigeni australasiani, che sono rimasti isolati per 50.000 anni) dovrebbero esisbire differenze sostanziali nell'apprendimento di una lingua, come invece non accade: un aborigeno impara una lingua europea con la stessa facilità di europeo di un'altra nazione.
“Anche se abbiamo una predisposizione verso il linguaggio, questa si è sviluppata troppo rapidamente perché i nostri geni abbiano potuto stare al passo,” spiega Charter. “Questo ci suggerisce che il linguaggio è plasmato dalla cultura, più che dalla biologia.”
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