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I geni della fame

Alcuni geni, connessi con la presenza di cibo nell'ambiente, potrebbero aiutarci a combattere l’invecchiamento

Caenorhabditis elegans

Molti dei geni che controllano la durata della vita dei nematodi (vermi tondi), hanno la stessa funzione nei lieviti, sostengono i ricercatori. Questo suggerisce che la stessa cosa accada anche nei mammiferi, umani compresi. Identificare questi geni ci potrebbe aiutare nella ricerca dei modi per rallentare i processi di invecchiamento e il comparire di malattie che a questi processi sono collegate.
Da quasi vent’anni è noto che impedendo il funzionamento di alcuni geni i nematodi e altri organismi vivono più a lungo del normale. Fino ad oggi, però, non si sapeva se questi geni fossero gli stessi in diverse specie. Per scoprirlo un gruppo di ricercatori statunitensi diretti da Brian Kennedy e Matt Kaeberlein dell’Università di Washington (Journal reference: Genome Research; DOI:10.1101/gr.074724.107), hanno messo assieme una lista di ben 276 geni che, se innativati, fanno sì che il nematode Caenorhabditis elegans viva più a lungo.
Poi i ricercatori hanno cercato quanti di questi geni si ritrovino del genoma del lievito Saccharomyces cerevisiae, e hanno trovato 76 geni. Infine hanno determinato che 11 di questi 76, se inattivati, determinano una vita più lunga anche nel lievito.
In parole più semplici: il 15% dei geni ha lo stesso effetto sulla longevità dei nematodi e dei lieviti, che si sono separati evolutivamente ben un miliardo e mezzo di anni fa. Questo fa pensare che geni così antichi, e così importanti, possano ritrovarsi con le stesse funzioni anche nei mammiferi, che in termini evolutivi sono più vicini ai vermi di quanto lo siano i lieviti.

Alzarsi da tavola… con la fame
Molti i questi geni che regolano la longevità giocano un ruolo nel rispondere alla quantità di nutrimenti presenti nell’ambiente.
Questo rafforza l’ipotesi che gli organismi possano aver sviluppato dei meccanismi che mitigano l’effetto dell’invecchiamento in risposta alla penuria di cibo, per accrescere le possibilità dell’organismo di riprodursi.
Di fatto il contenimento delle calorie – mangiare appena da sopravvivere – sembra una delle pochissime strade per allungare la vita degli organismi, dai vermi ai topi, fino agli uomini.
Il gruppo di Kennedy ha iniziato ora una serie di esperimenti per controllare se gli stessi geni hanno conseguenze sulla longevità dei topi, anche se è sono consapevole che è molto più difficile aumentare sensibilmente la vita di animali complessi come i topi.
Non tutti i ricercatori credono in questa strada. Alcuni ritengono che le restrizioni caloriche, o geni connessi alla presenza o carenza di nutrienti nell’ambiente, non possano credibilmente influire sulla longevità umana.
Le carestie raramente durano più di qualche mese o pochi anni, e quindi, ritengono, non c’è ragione perché gli esseri umani abbbiano sviluppato un meccanismo genetico che estenda la vita per compensare questi brevi periodi.

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