A pochi mesi dalla improvvisa scomparsa di Vittorio Cafagna, matematico e musicista dell'Università di Salerno, abbiamo incontrato il suo compagno di ricerche Domenico Vicinanza, co-fondatore del laboratorio SoundLab e membro del gruppo GRID Deployment del CERN di Ginevra, che ci racconta la loro avventura umana e scientifica che li ha portati a usare la matematica per esplorare la musica e la musica per esplorare il mondo.
Dieci anni fa Vittorio Cafagna e Lei fondavate un gruppo di ricerca all’Università di Salerno e tre anni fa un laboratorio di SoundLab di teoria dei suoni, per studiare i collegamenti tra la musica e altre discipline. Com’è nata questa idea?
L’idea è nata da una passione comune per la musica e per le scienze in particolare la matematica. Quasi per caso abbiamo scoperto di amare Bach e la musica medioevale, da una parte, e Shönberg e Webern dall’altra. Approfondendo queste passioni musicali abbiamo scoperto che avevamo anche delle passioni scientifiche comuni. Abbiamo quindi cominciato a lavorare sugli aspetti di collegamento tra la musica e la matematica cercando di utilizzare il formalismo matematico per descrivere una serie di fenomeni da sempre teorizzati nell’ambito musicale, da quando è nata la musica fino ai tentativi di formalizzazione nel Settecento con i primi trattati di armonia.
La relazione tra matematica e musica non sono una novità, ma Lei e Vittorio Cafagna, l’avete affrontato da un punto di vista originale…
L’abbiamo affrontata da un punto di vista scientifico: avevamo la matematica che offriva gli strumenti probabilmente più raffinati per l’interpretazioni e la descrizione di proprietà, quali le simmetrie e le strutture complesse. Questi formalismi non era mai stati applicati in modo sistematico all’ambito musicale. I diversi tentativi del passato si erano limitati a soddisfare una sorta di curiosità matematica, piuttosto che affrontare le cose dal punto di vista scientifico.
Abbiamo quindi fatto un salto nel passato, al tempo in cui matematica e scienze avevano un rapporto strettissimo, quando, per esempio all’epoca di Platone e di Keplero, l’armonia del cosmo si basava su delle regole matematiche precise. Noi abbiamo provato a usare un concetto musicale per descrivere una qualche proprietà naturale, cioè a utilizzare la musica come strumento di indagine del mondo. Volevamo indagare armonia e consonanza con un approccio generale, che trascendesse dal singolo campo di applicazione suggerisse una qualche idea della perfezione della creazione. Abbiamo usato un linguaggio di descrizione particolarmente votato a mettere in luce proprietà quali la smmmetria, l’armonia, la consonanza, abbiamo sfruttato la grandissima capacità che ha la matematica di rendere proprietà strutturali complesse. Questo da una parte. Dall’altra, l’aspetto innovativo è stato il ricorrere a della matematica nuova, abbiamo utilizzato nei nostri lavori i concetti e le scoperte della matematica dell’ultimo secolo…
Quindi questo vostro tornare indietro vi ha fatto andare avanti, in realtà…
Esattamente, la prima cosa riguarda l’approccio: abbiamo fatto un passo indietro nel tempo, siamo partiti cioè alla scoperta delle capacità descrittive della matematica per quanto riguarda proprietà musicali note ma ancora inspiegate, citate per esempio nei trattati di armonia di Rameau e altri teorici del Settecento… E dall’altra parte abbiamo utilizzato il potere descrittivo della musica. In sintesi, noi usiamo la matematica come strumento di descrizione profondo per la musica e la musica come forma di descrizione per il cosmo e per la natura. Gli strumenti però erano strumenti moderni: l’analisi complessa, le forme modulari… la matematica più bella! Ancora chiusa negli studi e nei dipartimenti, dove, secondo noi, non ha ancora avuto la possibilità di esprimersi appieno.
Con questo approccio, che sembra molto teorico, siete riusciti a fare delle cose di utilità pratica. So che avete “sonificato” dei fenomeni naturali, come l’attività dei vulcani, e che state progettando anche di sonificare l’attività neuronale… che cosa vuol dire e che implicazioni ha sulla comprensione e sulla interpretazione dei fenomeni naturali?
I vulcani e la previsione delle eruzioni sono uno dei casi in cui proviamo a utilizzare la musica come strumento descrittivo e l’orecchio come strumento di analisi potentissimo di cui siamo dotati e che forse sottoutilizziamo. Per certi versi l’orecchio umano è molto migliore dell’occhio nel riconoscere le simmetrie e la regolarità dei fenomeni. Basta pensare che chiunque, anche non dotato di capacità musicali particolarmente raffinate, è in grado di riconoscere immediatamente una nota stonata in una canzone. In termini matematici questo significa che l’orecchio è in grado di riconoscere le differenze tra due pattern, cioè tra due sequenze, estrememente simili, che presentano delle piccole differenze: per esempio, solo per una nota. Cosa che l’occhio riesce a fare con molta difficoltà. Se guardiamo due grafici che differiscono magari soltanto in un punto, il nostro occhio riuscirà a distinguere le differenze solo con molta difficoltà o non riuscirà affatto. In ogni caso non a colpo d’occhio… l’orecchio invece reagisce immediatamente quando ci sono delle strutture da riconoscere. Questa capacità innata dell’orecchio umano è completamente inutilizzata nel mondo scientifico, nel mondo dell’analisi dei dati. La nostra idea è stata quella di utilizzare l’orecchio come mezzo di elezione per riuscire a scoprire e a indagare determinati fenomeni come le eruzioni, i fenomeni sismici, l’attività neuronale, dove immaginiamo che le regolarità, i pattern, le simmetrie giochino un ruolo fondamentale. Laddove c’è da scoprire una qualche variazione, una mutazione da quello che è un’attività normale, per esempio dall’attività sismica normale che c’è nella Terra, e riconoscere un fenomeno nuovo, come quello dell’eruzione che avviene istananeamente o con una certa preparazione, lì pensiamo che l’orecchio possa fare meglio dell’occhio. Ancora adesso i sismogrammi vengono analizzati e ispezionati a vista. L’occhio è allenato a distinguere certi comportamenti anomali che possono essere pericolosi. Secondo noi l’orecchio può fare di meglio. Stiamo cercando di mettere su, in collaborazione con geofisici e geologi, una serie di strumenti che possano permettere all’orecchio di poter fare monitoraggio. Vorremmo utilizzre il senso dell’udito per riuscire a effettuare previsioni e indagini che l’occhio o non riesce a fare, o riesce a fare con difficoltà.
La generazione contestuale di immagini e musica è un’altra attività del vostro gruppo di ricerca, che ha lo scopo di introdurre una particolare multimedialità come strumento per rappresentare certi aspetti della realtà.
Ultimamente stiamo lavorando effettivamente alla generazione contestuale di immagini e suoni. È una sfida creativa perché abbiamo aggiunto un altro senso, quello della vista, alla possibilità di rappresentazione di segnali e fenomeni scientifici. C’è un progetto ambizioso alla base, che è quello di lavorare alla teoria astratta della rappresentazione, cioè la possibilità di descrivere formalmente dati scientifici attraverso suoni e immagini. In questo caso partiamo da un’unica serie di dati di un qualche esperimento, per esempio i dati sismici del vulcano, e utilizziamo la potenza della rappresentazione musicale per riconoscere certe proprietà, come le simmetrie e le regolarità, e utilizziamo la potenza della rappresentazione per immagini per riconoscere altre proprietà. L’occhio ha una visione globale di insieme e certe cose possono essere descritte meglio con il senso della vista. L’idea è quella di fare indagini scientifiche utilizzando i sensi che abbiamo a disposizione, ciascuno per quello che riesce a fare meglio: la vista per la visione globale di insieme, l’udito per la percezione differenziale, cioè l’evoluzione.
Come pensate di continuare, adesso che Vittorio Cafagna non c’è più, morto in modo così improvviso all’inizio di gennaio 2007? Come pensate di valorizzare un’esperienza che ha sicuramente delle implicazioni anche dal punto di vista umano? Lei e Vittorio avete stabilito un sodalizio scientifico e personale, che va un po’ al di là delle consuetudini del mondo accademico. E le cose che sieti riusciti a realizzare dipendono fortemente dalle persone che le hanno fatte nascere. Vittorio, ha lasciato sicuramente un vuoto: aveva un modo speciale di fare scienza, di lavorare, di insegnare? Non contemporaneo, creativo, non limitato…
Il motivo proncipale per cui abbiamo avuto la possibilità di orientarci verso campi così diversi, in ogni caso non standard, e in certi casi con successo, è l’apertura mentale di Vittorio e di altre persone che ci sono state accanto. Vittorio sapeva essere aperto alle novità, non chiudeva a priori nessun campo, nemmeno quelli che potevano essere solo delle curiosità o delle cose che nascevano così per caso. Tutto veniva immediatamente affrontato con lo stesso rigore di una proposta scientifica seria nata con i normali percorsi accademici. Vittorio dava pari dignità alle tematiche di ricerca standard e aveva, da una parte, la capacità di prendere sul serio quello che poteva sembrare una curiosità o un divertissement… e dall’altra parte la capacità di aprire il mondo scientifico, di giocare con la scienza, di forzare un po’ il meccanismo chiuso del mondo accademico. Oggi il mondo scientifico punta alla iperspecializzazione, ognuno sembra essere sempre più esperto del proprio campo e spesso non si affaccia nemmeno a vedere quello che capita nella porta accanto. Questo processo sta portando a una generazione di superesperti che non dialogano. Questa voglia di trasversalità, di rendere aperti il mondo scientifico e quello musicale facendoli dialogare, si esplicita per esempio nella serie di conferenze Sound and Music Computing che fa sedere allo stesso tavolo, scienziati, musicisti e artisti per cercare un terreno comune di lavoro e di ispirazione. Il grande dono di Vittorio era quello di mettersi sempre in gioco: anche a lezione era il primo a manifestare dubbi su quello che spiegava, se non capiva qualcosa, se non aveva chiari certi concetti non esitava a dirlo, se non gli veniva un calcolo non lo nascondeva, anzi sosteneva che il fatto che non sempre i conti tornino è nell’ordine delle cose del lavoro scientifico… Vittorio diceva agli studenti: “Fa parte del gioco. Non stiamo facendo magia ma scienza. E nella scienza può funzionare o non funzionare. Quando funziona abbiamo le scoperte e le innovazioni, quando non funziona significa che bisogna lavorarci ancora… tutto qui! Se funzionasse al primo colpo non sarebbe ricerca.” Per un periodo abbiamo fatto lezione insieme, e le nostre lezioni consistevano in un dialogo, in cui ci facevamo delle domande a vicenda e cercavamo di rispondere. Gli studenti, prima un po’ spiazzati da questo comportamento anomalo perché erano abituati a prendere per buono quello che veniva detto loro, poi partecipavano con meno ritrosia, si avvicinavano all’argomento, osavano fare domande, a esternare i loro dubbi… Sul teorema di Fourier, Vittorio diceva, per esempio: “Se non ci credete… non vi preoccupate, i matematici ci hanno messo due secoli per crederci e per capirlo…” Questo rendeva il mondo scientifico più vicino alla percezione comune, ed era splendido.
Ora l’idea, appoggiata anche dal Dipartimento e dagli organi istituzionali, è quella di continuare l’opera e il lavoro di Vittorio, il laboratorio e le attività di ricerca, come dovuto tributo a quello che è stato il suo modo di fare scienza, di insegnare, di fare musica e arte. Perché le cose che producevamo andavano indifferentemente verso convegni musicali, concerti di musica elettronica, installazioni multimediali, o convegni scientifici. Questa trasversalità, questo mettere insieme persone, culture, mondi diversi erano capacità speciali di Vittorio. Spero che tutti quanti avremo la forza di portare avanti questo progetto, e di renderlo sempre più concreto, che non si perda questo modo di fare cultura in Italia e all’università, perché è un modo prezioso di comunicare la scienza e di renderla a portata di mano di tutti.
Esempio di sonificazione: la musica dell’Etna
La conclusione del “caso Englaro” non chiude la questione spinosa della legge sul testamento biologico che in Italia ancora manca e anzi, se come è probabile, verrà votata in questi giorni una legge circoscritta unicamente all'alimentazione e all'idratazione artificiale dei pazienti incapaci di provvedere a se stessi, si rischia di cadere nel caos più assoluto. Come spiega Mario Riccio, medico “Che ha fatto la volontà di Piergiorgio Welby” come recita il titolo di un suo libro – e che è stato assolto l'anno scorso dall'accusa di “omicidio consenziente” - non saranno solo i cittadini a farne le conseguenze, ma anche i medici che si troveranno ad affrontare situazioni sempre più complicate e pazienti sempre meno fiduciosi.
Il caso Englaro - Beppino Englaro il padre di Eluana, una donna in coma per 17 anni, dopo varie battaglie legali ha ottenuto la sospensione delle cure che tenevano in vita la figlia scatenando così la forte opposizione da parte del Governo Italiano -, ha messo in evidenza la necessità di una legge per il testamento biologico in Italia. Il rischio, o la certezza visto il disegno di legge che dovrebbe essere approvato a breve, è che nella fretta si finisca per far passare un provvedimento parziale e che limiterà la libertà di scelta di ogni cittadino. Con Giovanni Boniolo, filosofo della scienza esperto di bioetica e coordinatore del dottorato in “Foundation of life sciences and their ethical consequences” abbiamo discusso della deriva italiana in fatto di autodeterminazione del paziente.
Il Large Hadron Collider è un dispositivo lungo 27 chilometri situato a circa 100 metri di profondità al confine tra Francia e Svizzera. Al suo interno i fasci di protoni corrono a velocità della luce. In alcuni punti la temperatura è da brivido, quasi 270 gradi sotto zero. Ma quando i protoni si scontrano la temperatura sale fino a diventare 1000 miliardi di volte maggiore di quella al centro del Sole. I suoi numeri sono da record: LHC oggi è la macchina più potente e la fabbrica di informazioni più grande del mondo. Il suo obiettivo principale? Trovare una particella: il bosone di Higgs. Maria Curatolo, responsabile per l’INFN dell’esperimento ATLAS, spiega a Scienza Esperienza gli obiettivi degli esperimenti di LHC.