Vai ai contenuti. Spostati sulla navigazione

Raffaella Rumiati

Raffaella Rumiati

Menti in movimento

Raffaella Rumiati è professore di neuropsicologia e coordinatore del Settore di Neuroscienze Cognitive della SISSA. Da anni è impegnata nello studio del rapporto tra strutture cerebrali e funzioni cognitive. Qui ci racconta le sue attuali ricerche, e più in generale gli studi nel campo della neuropsicologia. Emerge un affascinante percorso che va dai modelli di funzioni cognitive, all'apprendimento per imitazione, fino ad arrivare a indicazioni fenomenologiche sui nostri stati di consapevolezza, una finestra sulla coscienza.

12 agosto 2005
Francesco Scarpa

La neuropsicologia è un campo di ricerca sicuramente interdisciplinare. Qual è il percorso formativo che l'ha portata a questo tipo di ricerche?

Io mi sono laureata a Bologna in filosofia con indirizzo psicologico. Allora a Bologna non esisteva la laurea in psicologia. Poi ho preso un dottorato in psicologia presso la stessa università, svolgendo la ricerca per quattro anni presso la scuola di psicologia dell'Università di Birmingham (GB). Il p ostdottorato l'ho fatto con il professor Tim Shallice, qui alla SISSA.
Storicamente in Italia la neuropsicologia è stata sempre studiata e gestita, anche a livello di potere, dai medici, in particolare dai neurologi. In Inghilterra, invece, la tradizione è completamente opposta: i neurologi se ne occupano poco, e la neuropsicologia è là affidata soprattutto agli psicologi. Tim Shallice ad esempio è uno psicologo. Questo spiega in qualche modo il carattere di confine di certe ricerche, che hanno anticipato quello che è accaduto in generale nelle neuroscienze. Infatti nel settore di neuroscienze cognitive della SISSA abbiamo fisici, biologi, ingegneri, psicologi, medici, c'è un po' di tutto.

Quali sono le sue principali linee di ricerca?

Il mio lavoro consiste principalmente nell'individuare dei meccanismi di elaborazione legati a specifiche funzioni cognitive, e nel suggerire poi quali siano le aree del cervello che li sostengono. In particolare mi occupo del controllo motorio, e più precisamente di come acquisiamo una attività motoria complessa, come può essere per esempio quella relativa all'utilizzo di oggetti di vario genere, come quelli di uso quotidiano. Occorre individuare un'attività complessa, e poi spezzarla in unità primarie: così come è possibile spezzare il linguaggio parlato in suoni elementari, in fonemi, nello stesso modo io cerco di individuare delle unità in una complessa sequenza motoria. Mi interessa vedere in che modo questa è composta. Questo lo si può fare in diversi modi. Un modo è ad esempio vedere come nei pazienti cerebrolesi queste sequenze si spezzano. Evidentemente c'è qualcosa che si altera. Dalla conoscenza di queste alterazioni è possibile fare delle inferenze sulle funzionalità normali. Quindi conduciamo studi preliminari su quei pazienti che, in seguito a un ictus, a un tumore cerebrale o a una qualche forma di trauma, hanno difficoltà nello svolgere una serie di attività, anche azioni apparentemente banali come mangiare, vestirsi ecc. Questo è un aspetto dell'approccio neuropsicologico, che consiste appunto nello studio delle funzioni cognitive residue nei pazienti con lesioni cerebrali.
Questo lavoro richiede però molto tempo. Se ad esempio si vuole costruire un modello del controllo motorio, in cui si sono individuate delle componenti primarie, non è poi banale stabilire dove si localizzano le aree del cervello che sottostanno a queste componenti. Non è facile perché spesso i pazienti hanno delle lesioni vaste, molto ampie, che probabilmente comprenderebbero tutte queste componenti, e allo stesso tempo ogni paziente è diverso dall'altro. Se si volesse un campione di pazienti simili, funzionalmente e per lesioni cerebrali, ci vorrebbero cent'anni per ogni tipo di ricerca. È qui che entrano in causa le tecniche di neuroimmagini. Sono sostanzialmente due, la risonanza magnetica funzionale e la PET (tomografia a emissione di positroni).
Sono tecniche costose e poiché non le abbiamo a disposizione in SISSA siamo costretti ad andare fuori per dei periodi, per cui diventa un tipo di ricerca faticosa. Quello che faccio allora è partire da un'ipotesi abbastanza forte, di natura teorica, ma che abbia anche un sostegno empirico fornito dal lavoro con i pazienti, e sviluppo poi un disegno sperimentale, per verificare se la mia ipotesi basata sul lavoro con i pazienti sta in piedi oppure no.

Che tipo di ipotesi sono?

Sono ipotesi di natura funzionale, nel senso che ho un modello di funzionamento cognitivo. Ma hanno anche un contenuto di tipo neurofisiologico. Altrimenti non ha senso usare la risonanza o la PET.

Queste tecniche hanno rivoluzionato la ricerca nell'ambito della neuropsicologia?

Sono sicuramente importanti, e se avessimo avuto questa discussione una ventina di anni fa, non avrei potuto parlarne. Oggi queste tecniche sono disponibili, ed è un peccato non usarle; occorre però avere già idee chiare su cosa si vuol fare. Il problema è che molti le hanno usate per produrre lavori tutto sommato superficiali, e alle volte inutili. Per dieci anni l'uso di questa strumentazione ha permesso di pubblicare una grande quantità di articoli. Risultati anche non eccelsi, purchè fossero accompagnati da un'immagine, venivano pubblicati. Adesso fortunatamente non è più così. Non sono poi molte le risposte a cui non saremmo potuti arrivare, se non ci fossero state le neuroimmagini. In alcuni casi le neuroimmagini hanno spiegato fenomeni che non sarebbero stati individuati altrimenti.
È un problema generale di sociologia della ricerca; le nuove tecnologie rendono certamente le neuroscienze molto più affascinanti anche per i giovani, allo stesso tempo, però, hanno imposto in un certo senso le stesse regole del mercato. Così fare un progetto è costoso, e i ricercatori vanno nei gruppi dove circolano più risorse. Pubblicare un articolo è diventato costoso.
Ritornando alle neuroimmagini, le ho applicate a più temi; uno di questi riguarda l'apprendimento per imitazione di un movimento. Prima abbiamo condotto uno studio molto ampio, su una quarantina di pazienti, oltre a uno condotto con soggetti sani. Utilizzando un certo paradigma abbiamo osservato come dei soggetti normali si comportassero in maniera analoga ai pazienti. A quel punto abbiamo avuto l'idea di sviluppare uno studio specifico che facessse uso della PET. I risultati hanno confermato le nostre ipotesi basate sui soggetti sani e sui pazienti cerebrolesi.

Come riuscite a contattare i pazienti e a coinvolgerli nelle ricerche?

Abbiamo delle convenzioni con gli ospedali di Udine e di Trieste. Forniamo all'ospedale e ai pazienti delle valutazioni neuropsicologiche estese e molto accurate, producendo in effetti delle diagnosi. In cambio possiamo vedere i pazienti a scopo di ricerca. Quindi in realtà non siamo solo degli "approfittatori", anzi, diamo una mano all'ospedale che spesso non ha le risorse per un servizio del genere.

Ha lavorato su altri temi usando lo stesso tipo di metodologia?

L'altro tema a cui ho lavorato usando questa strategia di ricerca, con una prima fase sui pazienti e poi mediante tecniche di imaging, è stato quello relativo all'uso di oggetti e utensili in azioni che eseguiamo quotidianamente come preparaci il caffè, pettinarci ecc. Abbiamo cercato di sviluppare un modello che spieghi il processo che porta ognuno di noi a usare un certo tipo di utensile. È un processo che si sviluppa in più livelli: intenzionalità, pianificazione, movimenti ecc.

Che tipo di modelli avete sviluppato? Sono di natura matematica?

Nel caso dell'uso degli oggetti e di strumenti in azioni quotidiane, si tratta di un modello computazionale elaborato da un collega che lavora a Londra, Rick Cooper insieme a un collega della SISSA, Tim Shallice, il quale simula l'attività di un sistema chiamato contention scheduling che si ritiene regoli la generazione di azioni apprese, come farsi il caffe. Cooper ha "danneggiato" il modello, per vederne gli effetti e ha osservato che il modello produceva degli errori che erano quantitativamente e qualitativamente simili a quelli dei pazienti che avevo descrito con Shallice in un articolo di qualche anno fa apparso su Cognitive Neuropsychology. Cooper ha lesionato il modello congruentemente con quello che io avevo osservato nei pazienti e ha visto che, danneggiando in certi punti, si ottenevano effettivamente i pattern di risultati simili a quelli osservati nei pazienti. Questa simulazione è sofisticata ma è da sviluppare ulteriormente. È un modello che prevede l'esistenza di un network di conoscenze relative all'oggetto, ma anche a tutte le relazioni e le informazioni che si hanno di quell'oggetto e delle sue funzioni. Informazioni relative al movimento, alle traiettorie seguite per esempio per afferrarlo, e a tutti i processi motori necessari per arrivare a prendere l'oggetto ecc.
Non si tratta di modelli che simulano l'attività neuronale, come per esempio quelli sviluppati da Alessandro Treves, sempre della SISSA. I nostri sono modelli forse più rozzi dal punto di vista biologico, ma più sofisticati dal punto di vista del comportamento. Cerchiamo di realizzare una mediazione tra questi due livelli.

I fenomeni motori hanno qualcosa in comune cone fenomeni in altri domini cognitivi?

Ho già accennato alla nostra ricerca sui meccanismi dell'apprendimento per mezzo dell'imitazione. L'imitazione è un mezzo potentissimo dell'apprendimento innanzitutto perché è spontaneo, anche negli adulti, e poi è un modo rapido di apprendere, che consente di evitare errori e inutili prove. L'aspetto molto interessante è che questo tipo di apprendimento ha meccanismi comuni ad altri domini cognitivi, non è specifico per il dominio motorio.
Per esempio, in un esperimento in cui vengono presentate una lista di parole da leggere, una dietro l'altra, su di uno schermo di un computer, se tra queste vengono inserite alcune che non esistono nella lingua italiana, accade un fenomeno particolare. Il soggetto dell'esperimento riesce a leggere anche queste parole "nuove" che non fanno parte del lessico della lingua italiana, basandosi sulle regole proprie dell'italiano, che si chiamano regole di trasformazione grafema-fonema. Queste parole non hanno un significato, per cui il soggetto non cerca nel suo lessico il loro significato perché tanto non lo troverebbe; il problema è che dopo un pò si comporta così anche per le parole che invece esistono: la persona trasforma anche quei segni grafici in suoni senza recuperare dalla memoria il loro significato. Questo è stato dimostrato in molti lavori, non solo riferiti alla lingua italiana, ma anche ad altre lingue che hanno questo tipo di ortografia "trasparente"(in inglese shallow!), che è diversa, per esempio, da quella opaca dell'inglese, che ha regole di pronuncia completamente differenti. In questi esperimenti succede che il soggetto si rende conto che è più vantaggioso applicare queste regole, piuttosto che andare a verificare ogni volta se una particolare parola esista davvero nel proprio lessico, perché ci metterebbe molto di più. Quindi applica inconsapevolmente una strategia per così dire economica. Noi abbiamo tentato di capire se questo fosse vero anche in altri domini cognitivi, come quello motorio. Cioè, se certe modalità di comportamento fossero una caratteristica generale del funzionamento del cervello nelle situazioni in cui il sistema cognitivo decide di cambiare strategia per funzionare in maniera più efficiente. Abbiamo visto che quello che funziona per il linguaggio funziona anche nell'ambito motorio, e altri studi dimostrano che ciò avviene anche nel contesto della visione. Questa ricerca è stata pubblicata sul "Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance" ed è il frutto della collaborazione con una ex studentessa Alessia Tessari, ora ricercatrice a Bologna.

In che senso funziona questa analogia? Per esempio, come viene tradotto nel caso motorio il concetto di significato?

Distinguiamo tra qualcosa che il soggetto sa già fare, pettinarsi, perché è una sequenza che gli è nota, usuale, e un movimento che invece è simile per complessità a quello di pettinarsi ma non è fatto nello stesso ordine o nella giusta relazione tra le parti del corpo. Abbiamo visto che le regole che valgono per il linguaggio e la visione, valgono anche per le attività motorie. Il sistema motorio in realtà è stato sempre studiato come se si studiasse il motore di una macchina, senza pensare che nella generazione di un'azione sono coinvolti molti livelli di elaborazione che non sono semplicemente riconducibili al mero movimento muscolare.

Ho letto che ha sviluppato degli studi sulla capacità di immaginare oggetti ruotare; perché quest'aspetto è così importante?

La rotazione è un aspetto molto interessante del sistema cognitivo. Il nostro sistema cognitivo ha la possibilità di simulare i movimenti di persone e cose. Prima di fare un movimento e sprecare tempo nell'esecuzione vera e propria, è possibile immaginarsi un'azione, nello stesso modo in cui ci si immagina qualsiasi altra cosa. Questo permette di fare previsioni su quello che può accadere nell'ambiente.

A livello delle aree cerebrali attivate, immaginarsi un movimento è equivalente al farlo?

Assolutamente sì, quasi perfettamente sovrapponibile. Non solo, ma anche le aree cerebrali coinvolte sono quasi completamente sovrapponibili. Abbiamo fatto dei lavori molto interessanti in cui si dimostra che i pazienti con lesioni nelle aree parietali, premotorie e motorie hanno anche una capacità ridotta nell'immaginarsi dei movimenti.

La neuropsicologia arriva a fare ipotesi anche sulla natura della "coscienza"? Ci sono studi di tipo fenomenologico in tal senso?

Il problema della coscienza è un problema piuttosto complicato da trattare. Tra l'altro molto spesso se ne parla in termini troppo generici. Però è possibile in un certo senso operazionalizzarla, cioè è possibile ottenere delle dimostrazioni, delle prove, in cui, anche quando non te lo aspetti, si evidenzia una emergenza oppure una mancanza di consapevolezza. Un caso tipico, ad esempio, e molto frequente, purtroppo, è quello di pazienti con lesioni nell'emisfero destro, in particolare dell'area parietale, o premotoria: questi pazienti soffrono di quella che si chiama eminegligenza, ovverossia "ignorano" gli stimoli visivi, tattili ecc. presenti nell'emicampo controlaterale alla lesione (tipicamente l'emicampo sinistro). Quindi, se per esempio su un tavolo queste persone osservano degli oggetti, dichiarano di vedere solo quelli presenti in una parte del campo visivo. Se poi li si indirizza verso l'altra parte, allora ne prendono consapevolezza. Una spiegazione è che potrebbe esserci un deficit cognitivo dell'attenzione, per cui il paziente non riesce ad orientarsi verso l'emicampo sinistro, a seguito di una lesione.
Un paziente che ha una eminegligenza nell'ambito visivo, se gli vengono presentati nei due emicampi visivi due oggetti che hanno però un legame molto forte da un punto di vista motorio, ad esempio un bicchiere e una bottiglia, è possibile che riesca a percepirli entrambi, cioè a non ignorare l'oggetto che si trova nell'emicampo visivo in cui in precedenza diceva di non vedere nulla, come ha dimostrato Glyn Humphreys in uno studio recente.
Questo si verifica anche in altri domini cognitivi. Se si presentano al paziente con eminegligenza due figure, per esempio un gatto e un cane o le due parole gatto e cane, nei due emicampi visivi, si potrà notare che il tipico paziente con eminegligenza dirà di vedere una sola figura o una sola parola, quella presentata nell'emicampo destro. In realtà così come i soggetti sani, i pazienti traggono vantaggio dal vedere la figura o la parola gatto prima della figura o parola cane, vantaggio che si misura con un tempo di denominazione o lettura inferiore a quello che si otterrebbe se invece della figura o parola gatto venisse presentata la figura o la parola "bicicletta", per esempio. Questo effetto di facilitazione si spiega perché nel lessico le parole sono legate tra di loro, per cui l'attivazione dovuta alla presentazione dell'immagine di un gatto o della parola gatto, restando nel nostro esempio, attiva dei nodi vicini di una ipotetica rete. Anche in alcuni pazienti con eminegligenza si è osservato lo stesso effetto di facilitazione nella denominazione della figura cane a seguito della presentazione della della figura gatto (o della lettura, della parola cane nel caso della presentazione di parole), anche nei casi in cui questi sembrano vederne una sola: dobbiamo quindi pensare che invece anche loro hanno "elaborato" la seconda figura o parola.
Vi sono studi famosi che mostrano che in questi casi non c'è nemmeno bisogno che ci sia una reale modalità sensoriale, ma addirittura basta l'immaginazione. Nel primo di questa serie, Bisiach e Luzzattia chiedevano a due pazienti (che erano di Milano) di chiudere gli occhi e di immaginare di trovarsi nella piazza del Duomo, con il Duomo posto in posizione frontale. Poi gli veniva chiesto di descrivere tutti gli edifici che vedeva nella piazza. I pazienti allora indicavano tutti quelli che, nella realtà, c'erano solo nella parte destra. Poi si ripeteva l'esperimento, questa volta chiedendo ai pazienti di immaginare di mettersi con le spalle rivolte verso il Duomo. A quel punto i pazienti riportavano tutti gli edifici che prima avevano omesso.
Questi esperimenti evidenziano che anche quando i pazienti dicono di essere inconsapevoli di qualche fenomeno, di qualche stimolazione ambientale che gli viene presentata, in realtà non è proprio così, e possiamo provarlo, perché riscontriamo effetti di facilitazione, di inibizione ecc., effetti consolidati in molte ricerche: quell'informazione che dicono di ignorare, sta invece avendo un effetto a diversi livelli, a livello motorio, lessicale, semantico ecc.
Un'altro sintomo presentato dai pazienti cerebrolesi è la mancanza della consapevolezza dei deficit cognitivi di cui soffrono. Si chiama anosoagnosia. È un sintomo molto insidioso perché interferisce con il tentativo di riabilitare il paziente, il quale non si rende conto di essere malato.

Una questione di fiducia

Mario Riccio Mario Riccio

La conclusione del “caso Englaro” non chiude la questione spinosa della legge sul testamento biologico che in Italia ancora manca e anzi, se come è probabile, verrà votata in questi giorni una legge circoscritta unicamente all'alimentazione e all'idratazione artificiale dei pazienti incapaci di provvedere a se stessi, si rischia di cadere nel caos più assoluto. Come spiega Mario Riccio, medico “Che ha fatto la volontà di Piergiorgio Welby” come recita il titolo di un suo libro – e che è stato assolto l'anno scorso dall'accusa di “omicidio consenziente” - non saranno solo i cittadini a farne le conseguenze, ma anche i medici che si troveranno ad affrontare situazioni sempre più complicate e pazienti sempre meno fiduciosi.

Federica Sgorbissa

11 febbraio 2009

Una legge sul testamento biologico

Boniolo Giovanni Giovanni Boniolo

Il caso Englaro - Beppino Englaro il padre di Eluana, una donna in coma per 17 anni, dopo varie battaglie legali ha ottenuto la sospensione delle cure che tenevano in vita la figlia scatenando così la forte opposizione da parte del Governo Italiano -, ha messo in evidenza la necessità di una legge per il testamento biologico in Italia. Il rischio, o la certezza visto il disegno di legge che dovrebbe essere approvato a breve, è che nella fretta si finisca per far passare un provvedimento parziale e che limiterà la libertà di scelta di ogni cittadino. Con Giovanni Boniolo, filosofo della scienza esperto di bioetica e coordinatore del dottorato in “Foundation of life sciences and their ethical consequences” abbiamo discusso della deriva italiana in fatto di autodeterminazione del paziente.

Federica Sgorbissa

10 febbraio 2009

Tanto rumore per una particella

Maria Curatolo Maria Curatolo

Il Large Hadron Collider è un dispositivo lungo 27 chilometri situato a circa 100 metri di profondità al confine tra Francia e Svizzera. Al suo interno i fasci di protoni corrono a velocità della luce. In alcuni punti la temperatura è da brivido, quasi 270 gradi sotto zero. Ma quando i protoni si scontrano la temperatura sale fino a diventare 1000 miliardi di volte maggiore di quella al centro del Sole. I suoi numeri sono da record: LHC oggi è la macchina più potente e la fabbrica di informazioni più grande del mondo. Il suo obiettivo principale? Trovare una particella: il bosone di Higgs. Maria Curatolo, responsabile per l’INFN dell’esperimento ATLAS, spiega a Scienza Esperienza gli obiettivi degli esperimenti di LHC.

Ilenia Picardi

23 settembre 2008

© Copyright Sissa Medialab srl - Trieste (Italy) - 2006-2009
In collaborazione con Ulisse e Zadig