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Nuove speranze per i neonati delle donne affette da HIV

I farmaci che hanno la capacità di ridurre la probabilità di trasmissione del virus dell'HIV da madre a figlio al momento del parto hanno purtroppo la brutta complicazione di rendere inefficaci i successivi trattamenti sulla madre. Una nuova ricerca evidenzia che un ritardo nel ricominciare la cura dopo il parto potrebbe avere effetti positivi nel diminuire questo effetto collaterale.

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Una madre che protegge il figlio nascituro con l'assunzione di farmaci antivirali durante la gravidanza, rischia di pagare un prezzo terribile – l'emergere di una resistenza al farmaco; questo significa che successivamente alla nascita la propria terapia contro la malattia rischierà di fallire. Un nuovo studio dimostra però che se le madri sono in grado di attendere sei mesi prima di ricominciare la cura, la probabilità di resistenza al farmaco scende del 75%.

I ricercatori sostengono che questi risultati dovrebbero incoraggiare i governi e le istituzioni sanitarie, a modificare le indicazioni sul trattamento per le donne incinte affette da HIV, molte delle quali vivono nell'Africa subsahariana.

Una sola dose di nevirapina, un farmaco antivirale, prima del parto è in grado di ridurre a metà la probabilità di trasmissione madre-figlio del virus – da circa il 40 al 20%. La medicina in pratica blocca la replicazione del virus. Dopo il parto però le donne che hanno ricevuto una dose di nevirapina sviluppano spesso resistenza al farmaco. Questo significa che il loro organismo non risponde più al più comune trattamento anti HIV – una terapia combinata a base di nevirapina, lamivudina e zidovudina.

Shanin Lockman dell'Harvard School for Public Health di Boston, USA, e colleghi hanno analizzato i dati provenienti da 112 donne infette da HIV del Botswana che hanno ricevuto sia la dose di nevirapina prima del parto, sia la terapia combinata dopo la nascita.

Alcune delle donne sono state sottoposte al trattamento combinato entro sei mesi dal parto, a causa dell'aggravarsi dell'infezione. A causa della resistenza al farmaco, la cura ha però smesso di funzionare nel 47% dei casi.

Dall'altra parte invece, solo il 12% delle donne che hanno potuto aspettare sei mesi dalla fine della gravidanza non ha risposto positivamente al trattamento.

La percentuale è circa uguale a quella registrata in un altro gruppo di donne che non hanno ricevuto la nevirapina durante la gravidanza. La Lockman spiega che queste madri hanno avuto solo la zidovudina, nota anche come AZT, perché all'inizio dello studio (nel 2001) non erano ancora chiari gli effetti positivi della nevirapina nel prevenire la trasmissione del virus da madre a figlio.

Le donne che hanno aspettato sei mesi prima di iniziare la terapia contro l'HIV hanno reagito meglio alle medicine, perchè i ceppi resistenti al farmaco nel loro organismo erano in competizione sfavorevole con quelli normali. Le mutazioni che rendono l'HIV resistente alla nevirapina agiscono rallentando la replicazione del virus, per questo motivo una pausa nel trattamento impedisce ai ceppi resistenti di prendere piede.

Robert Shafer del HIV Drug Resistance Database della Stanford University in California, USA, ritiene che l'andamento temporale evidenziato nello studio è importante ma che ha bisogno di ulteriori conferme. “I risultati dovrebbero essere convalidati in un nuovo studio su altri sottotipi del virus HIV” dice lo scienziato. “Nel frattempo l'implicazione immediata è che se una donna ha la possibilità di aspettare per iniziare la terapia combinata, dovrebbe certamente farlo.”

I ricercatori aggiungono inoltre che le donne infette dall'HIV dovrebbero poter beneficiare della terapia combinata anche durante la gravidanza. Prendere tre medicine insieme riduce la possibilità di sviluppare ceppi resistenti ai singoli farmaci.

La Lockman osserva che uno dei più grandi ostacoli è quello di procurarsi i trattamenti necessari per le donne incinte. “Il 90% delle donne HIV positive nel mondo non sono sottoposte ad alcun trattamento durante la gravidanza”, denuncia la scienziata. (“New England Journal of Medicine”, vol 356, p 135).



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