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Paolo Budinich

Paolo Budinich

Il nonno della ricerca scientifica nei paesi poveri

Paolo Budinich, novanta anni appena compiuti, è uno dei padri fondatori di quello che oggi viene chiamato Sistema Trieste, ovvero un gruppo unico in Italia di centri di ricerca scientifica. Studioso di fisica teorica, in particolare di raggi cosmici, elettrodinamica quantistica e simmetria, Budinich ha dedicato più di quarant’anni della sua vita allo sviluppo di un modello sostenibile per la scienza nei paesi poveri. Raggiungendo un grande traguardo, la nascita appena annunciata del Consorzio su scienza, tecnologie e innovazione per il Sud del mondo (COSTIS), un nuovo organismo del G77 che avrà sede a Trieste. Gli abbiamo chiesto di spiegarci cos’è, e di raccontarcene la storia.

13 ottobre 2006
Marzia Mazzonetto

La fondazione del Consorzio ha avuto luogo poco tempo fa a New York, dove si sono riuniti i Ministri degli Esteri dei paesi in via di sviluppo che compongono il Gruppo dei 77 (G77). Questo Gruppo è molto importante, è nato per promuovere gli interessi sociali ed economici dei paesi emergenti, e ha la maggioranza assoluta nell’Assemblea delle Nazioni Unite (134 voti su 191). Il Consorzio potrebbe diventare qualcosa di veramente importante, ha grandi possibilità. L’obiettivo ufficiale è quello di fare in modo che aiuti questi paesi nello sviluppo della ricerca scientifica, attraverso l’interazione con i paesi più ricchi, la ricerca di fondi, e incoraggiando la cooperazione tra istituti e università. Il mio auspicio, è che diventi la conclusione di un itinerario incominciato nel 1964, con la nascita dell’ICTP (Centro internazionale di fisica teorica “Abdus Salam” di Trieste).

Cosa intende quando parla di conclusione?

Pochi sanno quello che è seguito alla nascita dell’ICTP. Non solo ha fatto in modo che tutti i premi Nobel della fisica passassero da Trieste, ma ha attirato e favorito la nascita di altre istituzioni scientifiche, come la SISSA, il TWAS, l’ICGEB, l’Area di Ricerca, che oggi formano il Sistema Trieste. Noi non abbiamo parlato molto di quello che stava succedendo, un po’ perché siamo triestini, e i triestini sono asburgici, prima fanno e dopo dicono, e un po’ perché quello che stavamo costruendo era rischioso, e noi stessi non sapevamo bene quelli che sarebbero stati gli esiti. Nel 2001, dopo quasi quaranta anni dall’inizio della nostra avventura, abbiamo ricevuto la visita del direttore del Gruppo dei 77, che è rimasto sbalordito di scoprire della nostra esistenza. Ovvero, dell’esistenza di un sistema internazionale di istituzioni scientifiche di alto livello, alcune delle quali sono dedicate per statuto all’aiuto delle comunità scientifiche dei paesi poveri. La prima reazione del direttore e di tutti noi è stata quella di pensare “dobbiamo fare qualcosa!”. È così che il 23 settembre di quest’anno le Nazioni Unite hanno deciso di creare il Consorzio su scienza, tecnologie e innovazione per il Sud del mondo del G77. L’obiettivo è quello di rilanciare quanto è stato fatto a Trieste in questo campo, ovvero dimostrare come, attraverso la scienza e la tecnologia, si possono aiutare i paesi poveri a emanciparsi.

Apriamo una piccola parentesi. Perché l’ICTP è nato proprio a Trieste? E come è nata l’idea di aprirsi ai paesi emergenti?

L’idea di creare un istituto di fisica sotto la bandiera delle Nazioni Unite è stata proposta per la prima volta da Einstein e Oppenheimer dopo le esplosioni delle bombe atomiche in Giappone, alla fine della Seconda Guerra Mondiale. I due scienziati si sentivano responsabili, se non colpevoli di quanto era successo. Per questo fecero un appello per la nascita di un istituto di fisica sotto la bandiera delle Nazioni Unite, dove potessero entrare tutti tranne i militari. Un’idea che oggi può sembrare purtroppo quasi inverosimile, ma tutti i grandi i fisici sono un po’ ingenui. Questa proposta trovò grande consenso nella comunità scientifica, se ne parlò per lungo tempo in tutti i congressi scientifici. Nel 1961 Abdus Salam, un professore pakistano di fisica all’Imperial College di Londra, portò l’idea di creare l’ICTP all’Assemblea dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’energia atomica, che era stata fondata dal presidente degli Stati Uniti Eisenhower, dopo la richiesta avanzata da Einstein e Oppenheimer. L’idea fu immediatamente combattuta da molti paesi, tra cui USA, Unione Sovietica, Inghilterra, Francia, Germania e Giappone, ovvero tutti quei paesi che non volevano mettere a rischio il monopolio che gli permetteva di reclutare buoni cervelli in tutto il mondo, e soprattutto nei popolosissimi paesi poveri. Non a caso molti premi Nobel, tra cui lo stesso Abdus Salam, sono nati nel Sud del mondo e hanno abbandonato le loro origini per studiare in università come Harvard negli Stati Uniti, o Oxford e Cambridge in Inghilterra, contribuendo all’arricchimento di questi paesi. Trieste fu candidata a essere sede dell’ICTP perché si trovava vicinissima, per la precisione a 6 chilometri, dalla cortina di ferro. L’istituto di ricerca, molto piccolo per la verità, che già esisteva a Trieste era nato per creare ponti e collaborazione tra Stati Uniti ed Europa da un lato, e Unione Sovietica dall’altro. Io ci lavoravo, e siccome conoscevo Adbus Salam gli proposi di realizzare la sua idea proprio qui. Dopo tre anni di battaglie diplomatiche, e sotto i peggiori auspici dei paesi più ricchi, nacque il Centro Internazionale di Fisica Teorica. Lentamente e con grandi difficoltà la nostra utopia cominciò a realizzarsi, almeno in parte: la nostra “punizione” per aver creato un centro per i paesi in via di sviluppo fu quella di essere un centro in via di sviluppo, con pochi fondi, e dedicato esclusivamente alla fisica teorica, dove non erano necessarie costose apparecchiature per fare esperimenti. Ma grazie all’appoggio di tutta la comunità scientifica internazionale, il Centro è riuscito a crescere e svilupparsi in fretta, trasformandosi in uno dei centri di ricerca più importanti al mondo.

Ha detto che non avete divulgato molto l’avventura di questi quaranta anni di vita del Centro. Può raccontarcela ora, per aiutarci a capire come ha fatto a diventare un modello per le Nazioni Unite, e per questo nuovo importante Consorzio che è nato?

Quando l’ICTP venne fondato, Salam ne diventò il direttore, e io il vicedirettore. Il nostro pensiero, molto ingenuo, era quello di riuscire a far diminuire la distanza tra paesi ricchi e poveri. In realtà a quei tempi io non sapevo ancora niente dei pesi poveri, ho imparato tantissime cose durante questi quaranta anni, e ho capito quanto sia importante aiutarli. Molti ricercatori di questi paesi all’inizio erano sbalorditi che ci fossero dei bianchi dei paesi ricchi che li aiutavano senza tentare di fregarli, come di solito avveniva. Gli spiegavamo che era il nostro dovere, il nostro lavoro. Purtroppo eravamo anche degli illusi, perché in più di 40 anni di vita il Centro ha speso meno di un decimo di quanto un paese medio come l’Italia spende in un solo anno per spese militari. Potevamo pensare davvero di risolvere un problema di portata mondiale come quello della povertà? Credo però che il nostro grande merito sia stato quello di dimostrare che si può fare, e come si può fare. Insegnando la scienza e facendo crescere le comunità scientifiche si possono aiutare i paesi poveri. Noi abbiamo versato solo una goccia nel mare dei bisogni, ora spero che le Nazioni Unite usino questo risultato per un’operazione di dimensioni molto più grandi. Il COSTIS è la conclusione del nostro tentativo, e il punto di partenza per la nascita di una nuova politica di aiuto al Sud del mondo. Molti riconoscono che la distanza immensa tra paesi ricchi (per lo più del Nord) e i paesi troppo poveri del Sud (dove miseria, ignoranza e ingiustizie commesse dai paesi ricchi sono enormi) è l’origine di instabilità, crisi politiche, e in ultima analisi anche del terrorismo. Questo progetto, per il quale stiamo cercando fondi internazionali, e su cui tutti si stanno impegnando molto, è quindi molto importante, per le Nazioni Unite ma anche per tutta l’Europa.

Lei ha partecipato alla nascita di questi importanti centri di ricerca a Trieste, e ha dedicato gran parte della sua vita al loro sviluppo. È felice di vedere che ora questo modello potrebbe avere un grande futuro?

Sono molto felice che si apra questa possibilità. I traguardi a cui può arrivare sono importanti, dipenderà tanto dal nostro lavoro e dall’attenzione delle sedi internazionali. Io mi sento un po’ come un nonno, che osserva con grandi speranze il neonato crescere. Questo progetto è una soddisfazione, per me ma anche per l’Italia, che ha finanziato l’80% del Sistema Trieste, e ora sarà il primo paese da cui parte questo bel progetto verso i paesi poveri. All’inizio le attività saranno rivolte soprattutto verso l’Africa, perché è il continente più vicino all’Europa. Ci sono una cinquantina di paesi subsahariani, dove 680 milioni di persone muoiono di fame. Questi paesi hanno bisogno di avere una università decente, che produca buoni dottori, ingegneri e tecnici indigeni, e che comunichi con altre università in Africa e in altri paesi. In questo possiamo aiutare molto, perché abbiamo una grande esperienza, e sappiamo che si può essere molto utili. Anche per il mercato europeo è conveniente avere un continente vicino, a Sud, che sia a un buon livello socio-economico. Inoltre, se l’Africa non fosse in condizioni così disperate come è oggi, finalmente il problema dell’immigrazione potrebbe essere risolto, creando almeno sul Mediterraneo una fascia di paesi che possano assorbire l’immigrazione dalle zone più povere.

Ultima domanda, se potesse cambiare una sola cosa di questi ultimi quaranta anni, cosa sceglierebbe?

Da nonno ho visto nascere questo nipote molto bravo, ora vorrei vederlo crescere e diventare quello che può diventare. Io personalmente…vorrei tornare ai miei studi preferiti, perché per sviluppare questo progetto ho dovuto un po’ abbandonare quello che mi piace tanto fare, la ricerca scientifica. È stato molto importante però conoscere la realtà dei paesi poveri, aver visto come molto spesso sono stati maltrattati dai ricchi, e aver tentato di rimediare. Mi ha permesso di capire una vecchia frase, che si trova in molti libri di saggezza antica, che dice “io ho quel che ho donato”. È molto più gratificante il dare che non il prendere. Credo che l’Italia sia un paese di solidarietà. La nascita di questo progetto è una grande occasione per aiutare, e per essere i primi in Europa a farlo.


Una questione di fiducia

Mario Riccio Mario Riccio

La conclusione del “caso Englaro” non chiude la questione spinosa della legge sul testamento biologico che in Italia ancora manca e anzi, se come è probabile, verrà votata in questi giorni una legge circoscritta unicamente all'alimentazione e all'idratazione artificiale dei pazienti incapaci di provvedere a se stessi, si rischia di cadere nel caos più assoluto. Come spiega Mario Riccio, medico “Che ha fatto la volontà di Piergiorgio Welby” come recita il titolo di un suo libro – e che è stato assolto l'anno scorso dall'accusa di “omicidio consenziente” - non saranno solo i cittadini a farne le conseguenze, ma anche i medici che si troveranno ad affrontare situazioni sempre più complicate e pazienti sempre meno fiduciosi.

Federica Sgorbissa

11 febbraio 2009

Una legge sul testamento biologico

Boniolo Giovanni Giovanni Boniolo

Il caso Englaro - Beppino Englaro il padre di Eluana, una donna in coma per 17 anni, dopo varie battaglie legali ha ottenuto la sospensione delle cure che tenevano in vita la figlia scatenando così la forte opposizione da parte del Governo Italiano -, ha messo in evidenza la necessità di una legge per il testamento biologico in Italia. Il rischio, o la certezza visto il disegno di legge che dovrebbe essere approvato a breve, è che nella fretta si finisca per far passare un provvedimento parziale e che limiterà la libertà di scelta di ogni cittadino. Con Giovanni Boniolo, filosofo della scienza esperto di bioetica e coordinatore del dottorato in “Foundation of life sciences and their ethical consequences” abbiamo discusso della deriva italiana in fatto di autodeterminazione del paziente.

Federica Sgorbissa

10 febbraio 2009

Tanto rumore per una particella

Maria Curatolo Maria Curatolo

Il Large Hadron Collider è un dispositivo lungo 27 chilometri situato a circa 100 metri di profondità al confine tra Francia e Svizzera. Al suo interno i fasci di protoni corrono a velocità della luce. In alcuni punti la temperatura è da brivido, quasi 270 gradi sotto zero. Ma quando i protoni si scontrano la temperatura sale fino a diventare 1000 miliardi di volte maggiore di quella al centro del Sole. I suoi numeri sono da record: LHC oggi è la macchina più potente e la fabbrica di informazioni più grande del mondo. Il suo obiettivo principale? Trovare una particella: il bosone di Higgs. Maria Curatolo, responsabile per l’INFN dell’esperimento ATLAS, spiega a Scienza Esperienza gli obiettivi degli esperimenti di LHC.

Ilenia Picardi

23 settembre 2008

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