I soldi sono espressione di un valore economico. Ma come facciamo a decidere il valore delle cose? Cosa ci spinge a scegliere un bene rispetto a un altro? Per gli economisti classici l'Homo oeconomicus sceglie in modo da massimizzare il suo utile. Ma da qualche tempo in qua questa teoria non regge più alla prova della irrazionalità delle scelte che gli uomini in carne e ossa compiono ogni giorno.
Per esempio, la maggior parte delle persone, fra 100 euro oggi e 101 domani sceglierebbe 100 euro oggi. Allo stesso tempo, la maggior parte delle persone sceglierebbe 101 euro tra 31 giorni piuttosto che 100 euro tra 30 giorni. “Il combinato di queste due scelte è una scelta economicamente irrazionale, perché molti di coloro che oggi sceglierebbero 101 euro tra 31 giorni cambieranno prevedibilmente idea nel corso del prossimo mese. Scelta irrazionale, dunque, ma ma molto comune, che evidentemente riflette caratteristiche psicologiche umane” spiega Camillo Padoa Schioppa, ricercatore di neuroeconomia alla Harvard Medical School di Boston e figlio dell'attuale ministro dell'economia, nonché di una delle più note economiste, Fiorella Kostoris.
Figlio d'arte, il giovane ricercatore italiano trapiantato a Boston si dedica da anni a “leggere” nel cervello cosa succede quando si compiono azioni cosiddette economiche, dallo shopping alla scelta dei fondi d'investimento. La sua ultima ricerca, pubblicata sulla rivista "Nature", si candida a essere una delle più promettenti nel campo della neuroeconomia, perché è riuscita a individuare i neuroni specializzati nell'attribuire valore ai beni: un'operazione raffinatissima codificata nel sistema nervoso dei primati, tanto è vero che l'esperimento non riguarda gli uomini ma le scimmie, e che potrebbe avere importanti conseguenze anche nel campo della salute. Infatti, i “neuroni del valore economico” sono racchiusi nell'area orbotifrontale del cervello: un'area che se non funziona a dovere è all'origine anche di vari disturbi della personalità, come l'anoressia, alcune dipendenze, ma anche una propensione incontrollata al rischio e a comportamenti aggressivi e antisociali. “Comprendere meglio come funziona questa parte del cervello potrebbe, in un futuro, consentirci di mettere a punto nuove terapie per questi disturbi” spiega Padoa-Schioppa, “ma anche ridisegnare i mercati e le istituzioni economiche perché riflettano le caratteristiche più intrinseche del ragionamento economico”.
Lo studio, durato tre anni, ha sottoposto un gruppo di scimmie a una serie di alternative alimentari fra le quali scegliere, misurando con degli elettrodi l'attività dei neuroni posti nell'area orbitofrontale. In particolare, ai primati venivano mostrati due succhi, uno più gradito dell'altro. Se i due succhi erano nella stessa quantità, la scelta delle scimmie si orientava verso quello più gradito. Lo stesso succedeva se il succo peggiore era il doppio o il triplo di quello migliore. Ma a partire da una quantità tripla, le scimmie cominciavano a scegliere quello peggiore, trovando il punto di equilibrio fra il buono e il tanto.
“Questo profilo di scelta si può intepretare in termini di valore dei due succhi,” spiega Padoa Schioppa. "In questo caso ci troviamo di fronte a una prima definizione di valore, dove un misurino del succo migliore 'vale' all'incirca tre misurini del succo più scadente. La cosa più interessante è che l'attività elettrica di alcuni neuroni indagati aumentava proporzionalmente alla differenza di valore dei succhi scelti. Per esempio, un certo neurone aveva un’attività ugualmente bassa quando la scimmia sceglieva un misurino del succo migliore oppure quando la scimmia sceglieva tre misurini del succo peggiore; lo stesso neurone aveva un’attività medio-alta quando la la scimmia sceglieva due misurini del succo migliore oppure sei misurini di quello meno buono; e il neurone aveva un’attività massima quando la scimmia sceglieva tre misurini del succo migliore oppure dieci misurini del succo peggiore. “Si può dire insomma che questi neuroni misurino non semplicemente la quantità e qualità dei succhi, ma quel quid che è appunto il valore che le scimmie gli attribuiscono” spiega Padoa Schioppa. “Ora dovremmo replicare l'esperimento offrendo alternative non alimentari, per vedere se l'attribuzione del valore funziona allo stesso modo, così come indagare altre aree del cervello per cercare i neuroni che facendo seguito alla misurazione del valore, determinano la decisione”. Quelli, cioè, che dopo un attimo di esitazione fanno dire: “Lo compro”.
I soldi e la felicità
Avere i soldi non basta per essere felici, ma non averli basta per essere infelici. Bisognava scomodare l'Università di Princeton e la rivista "Science" per confermare il famoso detto? In realtà, lo studio pubblicato dalla prestigiosa rivista americana e firmato dal premio Nobel per l'economia in salsa psicologica Daniel Kahneman dice qualcosa di diverso, e che non mancherà di consolare chi si sente tapino perché non naviga nell'oro. Certo, chi guadagna poco è più vulnerabile al tarlo dell'invidia. Tuttavia, chi ammassa grandi ricchezze non ha la felicità in tasca. Secondo lo studio, infatti, le persone con i redditi più alti sono, in generale, più stressate, ansiose e dedicano meno tempo ai momenti di svago, non potendosi così godere quello che hanno.
Il gruppo di ricercatori della Università di Princeton è arrivato a questo risultato, degno di un'epistola di Seneca, analizzando i diari fatti appositamente tenere a 1700 donne statunitensi. Oltre a reddito di ciascuna, sono stati indagati gli stati d'animo e il modo in cui passavano le giornate, per cercare di stabilire una correlazione fra ricchezza tipo di attività svolte e soddisfazione. La conclusione per molti versi sconcertante è che le più ricche sanno di essere più fortunate delle altre, ma non per questo si sentono più felici. È come se – osservano i ricercatori – chi ha tanti soldi si ritenesse automaticamente felice, pur non essendolo. Mentre chi ha pochi soldi si ritenesse per definizione infelice, pur cavandosela in genere meglio di quanto creda. Sia per gli uni che per gli altri la fede nel potere dei soldi di dare la felicità è assolutamente mal riposta.
A cosa si deve il paradosso che vede i poveri più felici dei ricchi? “Si tende a esagerare il contributo che i soldi possono dare alla qualità della vita” spiega Kahneman. “In realtà dai diari che abbiamo esaminato lo stress lavorativo e la mancanza di tempo libero delle persone a reddito più elevato sono fonti di grande sofferenza”. Una sofferenza di cui le persone ricche non riescono a capacitarsi, tanto sono convinte che con i soldi si possa comperare tutto, anche la felicità.
In realtà, la ricerca americana dipinge un quadro tutt'altro che roseo della high society. Prima di tutto, la vita dei ricchi è spesso guastata dall'incapacità di accontentarsi della ricchezza che hanno accumulato, spinti anche dall'aumento proporzionale di spese che il benessere porta con sé: una sorta di dipendenza che dà facilmente assuefazione. Ma il vero demone della ricchezza, a giudicare almeno da questo studio condotto su un campione esclusivamente femminile, è la mancanza di tempo libero: appena gli impegni lavorativi lo consentono, le donne con reddito alto dedicano gran parte del loro tempo alla cura dei figli e della famiglia, alla spesa, e alle altre incombenze domestiche ritenute da loro stesse cariche di tensioni e stress. Per esempio, chi guadagna 100.000 dollari l’anno (un reddito considerato elevato), passa meno del 20 per cento del proprio tempo in attività di svago ritenute piacevoli, come guardare la televisione, andare al cinema, uscire con gli amici. Viceversa, chi di dollari ne guadagna meno di 20.000, dedica a queste attività di svago più di un terzo del suo tempo.
La qualità del sonno infine sembra avere un effetto diretto sulla qualità della vita, così come i ritmi serrati da tenere sul lavoro. Si tratta di fattori che sono in grado di condizionare il livello di benessere più del reddito e del livello culturale.
La conclusione del “caso Englaro” non chiude la questione spinosa della legge sul testamento biologico che in Italia ancora manca e anzi, se come è probabile, verrà votata in questi giorni una legge circoscritta unicamente all'alimentazione e all'idratazione artificiale dei pazienti incapaci di provvedere a se stessi, si rischia di cadere nel caos più assoluto. Come spiega Mario Riccio, medico “Che ha fatto la volontà di Piergiorgio Welby” come recita il titolo di un suo libro – e che è stato assolto l'anno scorso dall'accusa di “omicidio consenziente” - non saranno solo i cittadini a farne le conseguenze, ma anche i medici che si troveranno ad affrontare situazioni sempre più complicate e pazienti sempre meno fiduciosi.
Il caso Englaro - Beppino Englaro il padre di Eluana, una donna in coma per 17 anni, dopo varie battaglie legali ha ottenuto la sospensione delle cure che tenevano in vita la figlia scatenando così la forte opposizione da parte del Governo Italiano -, ha messo in evidenza la necessità di una legge per il testamento biologico in Italia. Il rischio, o la certezza visto il disegno di legge che dovrebbe essere approvato a breve, è che nella fretta si finisca per far passare un provvedimento parziale e che limiterà la libertà di scelta di ogni cittadino. Con Giovanni Boniolo, filosofo della scienza esperto di bioetica e coordinatore del dottorato in “Foundation of life sciences and their ethical consequences” abbiamo discusso della deriva italiana in fatto di autodeterminazione del paziente.
Il Large Hadron Collider è un dispositivo lungo 27 chilometri situato a circa 100 metri di profondità al confine tra Francia e Svizzera. Al suo interno i fasci di protoni corrono a velocità della luce. In alcuni punti la temperatura è da brivido, quasi 270 gradi sotto zero. Ma quando i protoni si scontrano la temperatura sale fino a diventare 1000 miliardi di volte maggiore di quella al centro del Sole. I suoi numeri sono da record: LHC oggi è la macchina più potente e la fabbrica di informazioni più grande del mondo. Il suo obiettivo principale? Trovare una particella: il bosone di Higgs. Maria Curatolo, responsabile per l’INFN dell’esperimento ATLAS, spiega a Scienza Esperienza gli obiettivi degli esperimenti di LHC.