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Barbara Fantechi

Barbara Fantechi

Semplice, bello e reale

Barbara Fantechi è professore alla SISSA di Trieste nel Settore di Fisica Matematica. È tra i più importanti esperti di geometria algebrica in Italia e all’estero. L’abbiamo incontrata per fare il punto sui più recenti sviluppi nel suo campo di ricerca.

23 dicembre 2005
Francesco Scarpa

Il suo specifico campo di ricerca è la geometria algebrica. Di cosa si occupa questa branca della matematica?

La matematica è divisa in varie macro aree. Io mi occupo di geometria, in particolare di geometria algebrica. Intuitivamente è lo studio di quella geometria che si può fare con le quattro operazioni. Quasi tutti probabilmente hanno imparato a scuola che è possibile descrivere un cerchio con un’equazione di secondo grado, il che vuol dire con un’equazione in cui compaiono espressioni semplici come somme o moltiplicazioni. Non ci sono seni, coseni, esponenziali, funzioni di Bessel, e molte altre cose complicate della matematica.
L’idea alla base della geometria algebrica è studiare gli enti geometrici che si descrivono in questo modo semplice. In quest’approccio ovviamente si perde qualcosa, ma si guadagna tant’altro, perché grazie a questa semplicità di base molti problemi possono essere risolti, essendo vicini a problemi classici. Per esempio una versione della geometria algebrica, di cui io però non mi occupo, è la geometria aritmetica, che è stata usata per dimostrare l’ultimo teorema di Fermat, che ha fatto tanto eco sulla stampa.
La geometria algebrica è passata in un secolo dal ruolo di Cenerentola (David Hilbert quasi non ne parla nel suo elenco dei problemi per il 1900) a quello di mattatrice: geometri algebrici vengono regolarmente premiati con medaglie Fields, e il primo premio Abel (che aspira a diventare il Nobel per la matematica) è stato assegnato nel 2003 a un geometra algebrico, Jean-Pierre Serre.
Nell’ambito di questa disciplina io mi occupo di formalizzazioni che vengono dalla fisica teorica, in particolare dalla teoria delle stringhe. Per questo motivo afferisco al Settore di Fisica Matematica della SISSA. Circa una decina di anni fa esisteva un dottorato in geometria, incorporato nel Settore di Analisi Funzionale. Negli anni però l’attività nel campo della geometria all’interno del settore di Fisica Matematica si è fortemente espansa, e nel 2002 è stato aperto un apposito programma di dottorato. Inoltre nel 2004 (insieme col Settore di Analisi Funzionale e con l’Università di Trieste) è nato qui alla SISSA un corso di laurea magistrale in matematica. La matematica in SISSA è in forte espansione. Avere studenti e colleghi bravi rende quest’ambiente un posto davvero ideale per lavorare.
Io mi occupo soprattutto di problemi molto classici, di geometria enumerativa. Per capire intuitivamente di cosa si tratti, basti pensare, per esempio, a un problema nel quale, assegnato un certo numero di cerchi in un piano, ci si chieda quanti possibili cerchi siano tangenti a quelli già assegnati. Problemi come questo potevano essere enunciati già duemila anni fa. Ma un grosso studio è avvenuto soprattutto nel XIX secolo. Nel corso del Novecento le tecniche a disposizione si sono poi fortemente estese.

Lei ha ricevuto alcuni anni fa un importante riconoscimento, il premio per la ricerca scientifica "Gian Domenico Romagnosi", per quali studi?

Questi studi a cui si riferisce costituiscono uno dei miei risultati principali. Io mi sono sempre occupata di problemi classici, ma alcuni anni fa è accaduto che alcuni fisici hanno cominciato a interessarsi a specifiche problematiche matematiche. Ciò ha portato all’introduzione di quelli che si chiamano invarianti di Gromov-Witten. Gromov è un geometra simplettico, Witten è uno tra i più grandi esperti di teoria della stringhe.
Witten aveva sviluppato solo delle congetture sul funzionamento di questi invarianti. Il problema aperto era quello di darne una definizione rigorosa. I matematici hanno impiegato cinque anni per fornire questa definizione. C’erano due team in concorrenza. Quello che usava la geometria simplettica, e quello che usava la geometria algebrica. Alla fine io ho dato un contributo affinché i geometri algebrici vincessero questa gara. Abbiamo prevalso perché a un certo punto ci si è resi conto che il problema era già risolto. Non che quel problema specifico fosse esplicitamente risolto, ovviamente, ma che avevamo già sviluppato nella nostra cultura matematica quel linguaggio formale necessario per risolvere il problema.

A quando risale questo suo contributo?

Il lavoro è stato scritto tra il 1995 e 1996, congiuntamente con il professor Behrend dell’Università della British Columbia a Vancouver in Canada. Quest’articolo è in realtà un lavoro fondazionale, su come si definiscono gli invarianti. Come prima conseguenza, tali studi hanno prodotto un secondo lavoro del professor Behrend in cui venivano effettivamente definiti rigorosamente gli invarianti di Gromov-Witten. Ma la conseguenza più a largo raggio è quella che tutta una serie di invarianti successivi sono stati definiti proprio usando il nostro linguaggio. Quando ho scritto questo lavoro, che per me ha voluto dire un certo riconoscimento internazionale, ero ricercatore a Trento, nel 1999 poi sono diventata professore associato a Udine, e dal 2002 sono venuta alla SISSA.

Perchè questi risultati interessano i fisici che si occupano di teoria della stringhe?

I fisici non hanno necessità di rigore come l’abbiamo noi. Ma avere una fondazione matematica rigorosa permette loro di comunicare meglio con i matematici e di avere maggiore sicurezza nei risultati, quando possono sostituire ad argomenti euristici, dei passaggi dimostrativi rigorosi. Mi è capitato di recente un tipico esempio di come noi matematici ci relazioniamo con i fisici. Una dottoranda di fisica è venuta a raccontarmi alcuni dei suoi calcoli. A un certo punto le ho fatto notare che stava calcolando i numeri di Hurwitz doppi, ma lei non sapeva cosa fossero. Per molti fisici sapere che c’è qualcosa di matematica già fatto può voler dire risparmiare abbastanza lavoro e tempo. Inoltre permette di dare più forza a un risultato che magari hanno ottenuto in maniera euristica, in modo non rigoroso. Il punto è che per anni la fisica ha usato l’analisi e la geometria differenziale, cioè la geometria che usa tutte le funzioni e non solo le quattro operazioni. Il fatto che la fisica usi la geometria algebrica è qualcosa di relativamente giovane. Che risale a non più di vent’anni fa. C’è poi un altro motivo di questo nuovo connubio tra fisica e matematica, forse più contingente, dovuto al fatto che Witten è all’IAS a Princeton ed è molto vicino a Deligne, che è uno dei padri fondatori della geometria algebrica.

È possibile inquadrare storicamente alcune delle idee alla base dei suoi studi e della geometria algebrica come appartenenti allo spirito con cui il grande fisico matematico tedesco Hermann Weyl concepiva gli sviluppi della matematica, e il rapporto tra la matematica e la fisica?

Per le idee filosofiche certamente sì. In pratica ovviamente no. Perché tutto quello che usiamo come tecniche matematiche, sono state sviluppate molto tempo dopo Weyl. Mentre l’analisi è stata resa rigorosa tra il 1850 e il 1900, la geometria algebrica è stata resa rigorosa tra il 1940 e il 1960.
Da un punto di vista fondazionale c’è una differenza tra l’usare la geometria algebrica rispetto all’analisi infinitesimale. Non vi è una certa idea di discreto a fondamento della geometria algebrica, in contrapposizione all’idea di continuum alla base dell’analisi classica.
Mi sembra un argomento molto interessante. Perché la geometria algebrica da un lato confina con la geometria aritmetica che è certamente discreta, dall’altro lato confina con la geometria analitica complessa, che è il massimo della continuità. I miei lavori si possono considerare per metà nella matematica discreta, e per l’altra metà nella matematica continua. Io credo che la nostra forza sia quella di poter utilizzare sia tecniche discrete che tecniche continue. Spesso non abbiamo bisogno di derivate o integrali, però quando è necessario si usano.

C’è un rapporto con la matematica costruttiva?

No. Anzi siamo all’estremo opposto perché quasi tutti i geometri algebrici che lavorano nel mio campo specifico, lavorano implicitamente con una versione molto forte dell’assioma della scelta, la cui negazione è alla base della matematica costruttiva. Quindi i nostri metodi sono fortemente non costruttivi. Detto questo però, c’è una parte della geometria algebrica, che non è quella di cui mi occupo io personalmente, che è invece fortemente costruttiva, perché è ragionevolmente implementabile dal punto di vista numerico. Per esempio, vi è un uso della geometria aritmetica in un ambito che ha risvolti molto pratici, come quello della sicurezza dei bancomat. La geometria algebrica fornisce dei metodi per costruire codici basati sulla difficoltà di fattorizzare il prodotto di due numeri primi grandi. Questa è una tecnica ormai standard usatissima.

È possibile che una determinata matematica, piuttosto che un’altra, sia più adatta a spiegare specifici concetti fisici: per esempio, una matematica discreta può spiegare meglio processi fisici discreti come quelli quantistici?

Non so. Il problema è che il panorama della fisica è molto complesso. A me sfugge in tutta la sua complessità. Soprattutto ho l’impressione che i fisici abbiano bisogno di tutta la matematica, sia di quella che c’è, ma anche un po’ di quella che non c’è! In questo senso una combinazione dell’approccio continuo e dell’approccio discreto è essenziale, però in questo caso la parte di geometria algebrica che stiamo usando per la fisica è sicuramente una parte continua e non discreta. Esistono dei tentattivi di alcuni fisici rivolti all’uso di parti più discrete della matematica. Per ora però, sono molto lontani dal testare qualcosa da un punto di vista sperimentale.

Che rapporto ha con la fisica e i fisici?

Ho un rapporto un po’ conflittuale con la fisica. Io sono un matematico con la formazione da matematico, ciò vuol dire che ci hanno insegnato a onorare il rigore in tutte le sue forme. Alle volte quindi leggere alcuni lavori di fisica può essere un po’ fastidioso, perché spesso il rigore non esiste. In compenso quando si riesce a interloquire con i fisici e a tirar fuori degli enunciati che abbiano un senso matematico, anche senza dimostrazione, in genere si è di fronte a qualcosa di estremamente interessante. La differenza principale fra noi e i fisici è che loro seguono il mondo reale, e noi la semplicità (di solito la chiamiamo bellezza) e il rigore: quando ci sono tutti e due, sappiamo di essere arrivati a un risultato rilevante.

Queste sue ricerche che impatto possono avere su un pubblico di non esperti?

Il problema di quanto si può divulgare della matematica è una questione estremamente interessante. Io penso che debba essere possibile fare molto di più di quello che si tenta di fare oggi, specialmente qui in Italia. Se si legge per esempio il libro di Simon Singh sull’Ultimo Teorema di Fermat, ci si rende subito conto che in Italia non c’è un’analoga capacità di divulgazione matematica. C’è una necessità di diffusione di contenuti scientifici su due livelli. Uno riguarda un’educazione generale del pubblico alla matematica di base, quella che dovrebbe essere presente nella vita di tutti i giorni, ma che purtroppo non è facilmente visibile. C’è poi una necessità per noi, e una opportunità per il pubblico, che consiste nel tentare di far conoscere e di rappresentare la matematica come una ricerca in divenire. Infatti, la maggior parte della gente pensa che, a differenza della fisica, della chimica o della biologia, la matematica non si possa più sviluppare, quasi che tutto sia stato già scoperto. Abbiamo il grosso handicap che la matematica nelle scuole finisce nella migliore delle ipotesi, cioè per le persone che arrivano al liceo, alla matematica del 1850. Se noi pretendessimo di insegnare a scuola la fisica fino al 1850 saremmo giustamente considerati dei folli.
È chiaro che per la matematica è un discorso diverso. Si insegna quella "vecchia", perché la matematica di duemila anni fa, a differenze della fisica, non va male. Dopo duemila anni è ancora buona, e sarà buona in eterno. Ci vorrebbe in generale un lavoro serio di divulgazione. Purtroppo quel poco che si fa di divulgazione matematica in Italia è un po’ distorto, perché si cerca soprattutto di divulgare ciò che appare fin troppo semplice e accattivante. Per esempio, sui frattali si è scritto molto e si è visto di tutto, perché i frattali producono dei bellissimi disegnini. Matematicamente però è un concetto un po’ morto. Ci sono certamente aree di ricerca interessanti vicine ai frattali, ma ci sono anche tante altre cose! La matematica moderna è in continua evoluzione: sarebbe bello riuscire a condividere col pubblico (che paga per il nostro lavoro) almeno lo spirito, se non i dettagli tecnici, delle nostre scoperte più importanti.

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