Barbara Fantechi è professore alla SISSA di Trieste nel Settore di Fisica Matematica. È tra i più importanti esperti di geometria algebrica in Italia e all’estero. L’abbiamo incontrata per fare il punto sui più recenti sviluppi nel suo campo di ricerca.
Il suo specifico campo di ricerca è la geometria algebrica. Di cosa si occupa questa branca della matematica?
La matematica è divisa in varie macro aree. Io mi occupo di
geometria, in particolare di geometria algebrica. Intuitivamente è lo
studio di quella geometria che si può fare con le quattro operazioni.
Quasi tutti probabilmente hanno imparato a scuola che è possibile
descrivere un cerchio con un’equazione di secondo grado, il che vuol
dire con un’equazione in cui compaiono espressioni semplici come somme
o moltiplicazioni. Non ci sono seni, coseni, esponenziali, funzioni di
Bessel, e molte altre cose complicate della matematica.
L’idea alla base della geometria algebrica è studiare gli enti
geometrici che si descrivono in questo modo semplice. In
quest’approccio ovviamente si perde qualcosa, ma si guadagna
tant’altro, perché grazie a questa semplicità di base molti problemi
possono essere risolti, essendo vicini a problemi classici. Per esempio
una versione della geometria algebrica, di cui io però non mi occupo, è
la geometria aritmetica, che è stata usata per dimostrare l’ultimo
teorema di Fermat, che ha fatto tanto eco sulla stampa.
La geometria algebrica è passata in un secolo dal ruolo di Cenerentola
(David Hilbert quasi non ne parla nel suo elenco dei problemi per il
1900) a quello di mattatrice: geometri algebrici vengono regolarmente
premiati con medaglie Fields, e il primo premio Abel (che aspira a
diventare il Nobel per la matematica) è stato assegnato nel 2003 a un
geometra algebrico, Jean-Pierre Serre.
Nell’ambito di questa disciplina io mi occupo di formalizzazioni che
vengono dalla fisica teorica, in particolare dalla teoria delle
stringhe. Per questo motivo afferisco al Settore di Fisica Matematica
della SISSA.
Circa una decina di anni fa esisteva un dottorato in geometria,
incorporato nel Settore di Analisi Funzionale. Negli anni però
l’attività nel campo della geometria all’interno del settore di Fisica
Matematica si è fortemente espansa, e nel 2002 è stato aperto un
apposito programma di dottorato. Inoltre nel 2004 (insieme col Settore
di Analisi Funzionale e con l’Università di Trieste) è nato qui alla
SISSA un corso di laurea magistrale in matematica.
La matematica in SISSA è in forte espansione. Avere studenti e colleghi
bravi rende quest’ambiente un posto davvero ideale per lavorare.
Io mi occupo soprattutto di problemi molto classici, di geometria
enumerativa. Per capire intuitivamente di cosa si tratti, basti
pensare, per esempio, a un problema nel quale, assegnato un certo
numero di cerchi in un piano, ci si chieda quanti possibili cerchi
siano tangenti a quelli già assegnati. Problemi come questo potevano
essere enunciati già duemila anni fa. Ma un grosso studio è avvenuto
soprattutto nel XIX secolo. Nel corso del Novecento le tecniche a
disposizione si sono poi fortemente estese.
Lei ha ricevuto alcuni anni fa un importante riconoscimento, il premio per la ricerca scientifica "Gian Domenico Romagnosi", per quali studi?
Questi studi a cui si riferisce costituiscono uno dei miei risultati
principali. Io mi sono sempre occupata di problemi classici, ma alcuni
anni fa è accaduto che alcuni fisici hanno cominciato a interessarsi a
specifiche problematiche matematiche. Ciò ha portato all’introduzione
di quelli che si chiamano invarianti di Gromov-Witten. Gromov è un
geometra simplettico, Witten è uno tra i più grandi esperti di teoria
della stringhe.
Witten aveva sviluppato solo delle congetture sul funzionamento di
questi invarianti. Il problema aperto era quello di darne una
definizione rigorosa. I matematici hanno impiegato cinque anni per
fornire questa definizione. C’erano due team in concorrenza. Quello che
usava la geometria simplettica, e quello che usava la geometria
algebrica. Alla fine io ho dato un contributo affinché i geometri
algebrici vincessero questa gara. Abbiamo prevalso perché a un certo
punto ci si è resi conto che il problema era già risolto. Non che quel
problema specifico fosse esplicitamente risolto, ovviamente, ma che
avevamo già sviluppato nella nostra cultura matematica quel linguaggio
formale necessario per risolvere il problema.
A quando risale questo suo contributo?
Il lavoro è stato scritto tra il 1995 e 1996, congiuntamente con il professor Behrend dell’Università della British Columbia a Vancouver in Canada. Quest’articolo è in realtà un lavoro fondazionale, su come si definiscono gli invarianti. Come prima conseguenza, tali studi hanno prodotto un secondo lavoro del professor Behrend in cui venivano effettivamente definiti rigorosamente gli invarianti di Gromov-Witten. Ma la conseguenza più a largo raggio è quella che tutta una serie di invarianti successivi sono stati definiti proprio usando il nostro linguaggio. Quando ho scritto questo lavoro, che per me ha voluto dire un certo riconoscimento internazionale, ero ricercatore a Trento, nel 1999 poi sono diventata professore associato a Udine, e dal 2002 sono venuta alla SISSA.
Perchè questi risultati interessano i fisici che si occupano di teoria della stringhe?
I fisici non hanno necessità di rigore come l’abbiamo noi. Ma avere una fondazione matematica rigorosa permette loro di comunicare meglio con i matematici e di avere maggiore sicurezza nei risultati, quando possono sostituire ad argomenti euristici, dei passaggi dimostrativi rigorosi. Mi è capitato di recente un tipico esempio di come noi matematici ci relazioniamo con i fisici. Una dottoranda di fisica è venuta a raccontarmi alcuni dei suoi calcoli. A un certo punto le ho fatto notare che stava calcolando i numeri di Hurwitz doppi, ma lei non sapeva cosa fossero. Per molti fisici sapere che c’è qualcosa di matematica già fatto può voler dire risparmiare abbastanza lavoro e tempo. Inoltre permette di dare più forza a un risultato che magari hanno ottenuto in maniera euristica, in modo non rigoroso. Il punto è che per anni la fisica ha usato l’analisi e la geometria differenziale, cioè la geometria che usa tutte le funzioni e non solo le quattro operazioni. Il fatto che la fisica usi la geometria algebrica è qualcosa di relativamente giovane. Che risale a non più di vent’anni fa. C’è poi un altro motivo di questo nuovo connubio tra fisica e matematica, forse più contingente, dovuto al fatto che Witten è all’IAS a Princeton ed è molto vicino a Deligne, che è uno dei padri fondatori della geometria algebrica.
È possibile inquadrare storicamente alcune delle idee alla base dei suoi studi e della geometria algebrica come appartenenti allo spirito con cui il grande fisico matematico tedesco Hermann Weyl concepiva gli sviluppi della matematica, e il rapporto tra la matematica e la fisica?
Per le idee filosofiche certamente sì. In pratica ovviamente no.
Perché tutto quello che usiamo come tecniche matematiche, sono state
sviluppate molto tempo dopo Weyl. Mentre l’analisi è stata resa
rigorosa tra il 1850 e il 1900, la geometria algebrica è stata resa
rigorosa tra il 1940 e il 1960.
Da un punto di vista fondazionale c’è una differenza tra l’usare la
geometria algebrica rispetto all’analisi infinitesimale. Non vi è una
certa idea di discreto a fondamento della geometria algebrica, in
contrapposizione all’idea di continuum alla base dell’analisi classica.
Mi sembra un argomento molto interessante. Perché la geometria
algebrica da un lato confina con la geometria aritmetica che è
certamente discreta, dall’altro lato confina con la geometria analitica
complessa, che è il massimo della continuità. I miei lavori si possono
considerare per metà nella matematica discreta, e per l’altra metà
nella matematica continua.
Io credo che la nostra forza sia quella di poter utilizzare sia
tecniche discrete che tecniche continue. Spesso non abbiamo bisogno di
derivate o integrali, però quando è necessario si usano.
C’è un rapporto con la matematica costruttiva?
No. Anzi siamo all’estremo opposto perché quasi tutti i geometri algebrici che lavorano nel mio campo specifico, lavorano implicitamente con una versione molto forte dell’assioma della scelta, la cui negazione è alla base della matematica costruttiva. Quindi i nostri metodi sono fortemente non costruttivi. Detto questo però, c’è una parte della geometria algebrica, che non è quella di cui mi occupo io personalmente, che è invece fortemente costruttiva, perché è ragionevolmente implementabile dal punto di vista numerico. Per esempio, vi è un uso della geometria aritmetica in un ambito che ha risvolti molto pratici, come quello della sicurezza dei bancomat. La geometria algebrica fornisce dei metodi per costruire codici basati sulla difficoltà di fattorizzare il prodotto di due numeri primi grandi. Questa è una tecnica ormai standard usatissima.
È possibile che una determinata matematica, piuttosto che un’altra, sia più adatta a spiegare specifici concetti fisici: per esempio, una matematica discreta può spiegare meglio processi fisici discreti come quelli quantistici?
Non so. Il problema è che il panorama della fisica è molto complesso. A me sfugge in tutta la sua complessità. Soprattutto ho l’impressione che i fisici abbiano bisogno di tutta la matematica, sia di quella che c’è, ma anche un po’ di quella che non c’è! In questo senso una combinazione dell’approccio continuo e dell’approccio discreto è essenziale, però in questo caso la parte di geometria algebrica che stiamo usando per la fisica è sicuramente una parte continua e non discreta. Esistono dei tentattivi di alcuni fisici rivolti all’uso di parti più discrete della matematica. Per ora però, sono molto lontani dal testare qualcosa da un punto di vista sperimentale.
Che rapporto ha con la fisica e i fisici?
Ho un rapporto un po’ conflittuale con la fisica. Io sono un matematico con la formazione da matematico, ciò vuol dire che ci hanno insegnato a onorare il rigore in tutte le sue forme. Alle volte quindi leggere alcuni lavori di fisica può essere un po’ fastidioso, perché spesso il rigore non esiste. In compenso quando si riesce a interloquire con i fisici e a tirar fuori degli enunciati che abbiano un senso matematico, anche senza dimostrazione, in genere si è di fronte a qualcosa di estremamente interessante. La differenza principale fra noi e i fisici è che loro seguono il mondo reale, e noi la semplicità (di solito la chiamiamo bellezza) e il rigore: quando ci sono tutti e due, sappiamo di essere arrivati a un risultato rilevante.
Queste sue ricerche che impatto possono avere su un pubblico di non esperti?
Il problema di quanto si può divulgare della matematica è una
questione estremamente interessante. Io penso che debba essere
possibile fare molto di più di quello che si tenta di fare oggi,
specialmente qui in Italia.
Se si legge per esempio il libro di Simon Singh sull’Ultimo Teorema di
Fermat, ci si rende subito conto che in Italia non c’è un’analoga
capacità di divulgazione matematica.
C’è una necessità di diffusione di contenuti scientifici su due
livelli. Uno riguarda un’educazione generale del pubblico alla
matematica di base, quella che dovrebbe essere presente nella vita di
tutti i giorni, ma che purtroppo non è facilmente visibile. C’è poi una
necessità per noi, e una opportunità per il pubblico, che consiste nel
tentare di far conoscere e di rappresentare la matematica come una
ricerca in divenire. Infatti, la maggior parte della gente pensa che, a
differenza della fisica, della chimica o della biologia, la matematica
non si possa più sviluppare, quasi che tutto sia stato già scoperto.
Abbiamo il grosso handicap che la matematica nelle scuole finisce nella
migliore delle ipotesi, cioè per le persone che arrivano al liceo, alla
matematica del 1850. Se noi pretendessimo di insegnare a scuola la
fisica fino al 1850 saremmo giustamente considerati dei folli.
È chiaro che per la matematica è un discorso diverso. Si insegna quella
"vecchia", perché la matematica di duemila anni fa, a differenze della
fisica, non va male. Dopo duemila anni è ancora buona, e sarà buona in
eterno.
Ci vorrebbe in generale un lavoro serio di divulgazione. Purtroppo quel
poco che si fa di divulgazione matematica in Italia è un po’ distorto,
perché si cerca soprattutto di divulgare ciò che appare fin troppo
semplice e accattivante. Per esempio, sui frattali si è scritto molto e
si è visto di tutto, perché i frattali producono dei bellissimi
disegnini. Matematicamente però è un concetto un po’ morto. Ci sono
certamente aree di ricerca interessanti vicine ai frattali, ma ci sono
anche tante altre cose! La matematica moderna è in continua evoluzione:
sarebbe bello riuscire a condividere col pubblico (che paga per il
nostro lavoro) almeno lo spirito, se non i dettagli tecnici, delle
nostre scoperte più importanti.
La conclusione del “caso Englaro” non chiude la questione spinosa della legge sul testamento biologico che in Italia ancora manca e anzi, se come è probabile, verrà votata in questi giorni una legge circoscritta unicamente all'alimentazione e all'idratazione artificiale dei pazienti incapaci di provvedere a se stessi, si rischia di cadere nel caos più assoluto. Come spiega Mario Riccio, medico “Che ha fatto la volontà di Piergiorgio Welby” come recita il titolo di un suo libro – e che è stato assolto l'anno scorso dall'accusa di “omicidio consenziente” - non saranno solo i cittadini a farne le conseguenze, ma anche i medici che si troveranno ad affrontare situazioni sempre più complicate e pazienti sempre meno fiduciosi.
Il caso Englaro - Beppino Englaro il padre di Eluana, una donna in coma per 17 anni, dopo varie battaglie legali ha ottenuto la sospensione delle cure che tenevano in vita la figlia scatenando così la forte opposizione da parte del Governo Italiano -, ha messo in evidenza la necessità di una legge per il testamento biologico in Italia. Il rischio, o la certezza visto il disegno di legge che dovrebbe essere approvato a breve, è che nella fretta si finisca per far passare un provvedimento parziale e che limiterà la libertà di scelta di ogni cittadino. Con Giovanni Boniolo, filosofo della scienza esperto di bioetica e coordinatore del dottorato in “Foundation of life sciences and their ethical consequences” abbiamo discusso della deriva italiana in fatto di autodeterminazione del paziente.
Il Large Hadron Collider è un dispositivo lungo 27 chilometri situato a circa 100 metri di profondità al confine tra Francia e Svizzera. Al suo interno i fasci di protoni corrono a velocità della luce. In alcuni punti la temperatura è da brivido, quasi 270 gradi sotto zero. Ma quando i protoni si scontrano la temperatura sale fino a diventare 1000 miliardi di volte maggiore di quella al centro del Sole. I suoi numeri sono da record: LHC oggi è la macchina più potente e la fabbrica di informazioni più grande del mondo. Il suo obiettivo principale? Trovare una particella: il bosone di Higgs. Maria Curatolo, responsabile per l’INFN dell’esperimento ATLAS, spiega a Scienza Esperienza gli obiettivi degli esperimenti di LHC.