Turkmenistan

Inutile dire che collegarci è difficilissimo. E le nostre testimonianze sono in ritardo. Inoltre, non abbiamo ottenuto dal governo turkmeno il permesso di raggiugere le comunità di Terra Madre. Ma non possiamo nemmeno anticipare il nostro arrivo in Uzbekistan: le date di ingresso e uscita del visto non ce lo permettono. Ergo: siamo ingabbiati ad Asghabat, in una riserva dorata e abbacinante. Una città che sembra nata ieri sull’immagine di un plastico. La chiamano “la città bianca”, il colore del marmo che dalla nostra Carrara è giunto fin qui a impreziosire il faraonico progetto di espansione edilizia della città. Edifici di rappresentanza e appartamenti in forma di “palazzi imperiali”, ciascuno con una speciale soluzione architettonica e decorativa, ma sempre celebrativa e ridondante. Sempre la bandiera sul tetto. Sempre una cornice di aiuole, tuie e altri alberelli, quasi a voler scacciare il deserto che cinge la città tutt’intorno, che obbliga chiunque arrivi dal deserto a lavare via dall’auto ogni traccia di polvere, pena una multa salata. Strade larghissime, fontane epiche, distanze impossibili da percorrere a piedi, pena l’insolazione.
Niente turisti o quasi, qui ad Ashgabat. Ma uomini in viaggio d’affari, soli o con famigliole al seguito: la forma asettica della città residenziale sembra fatta per loro.

La mattina tutto sembra avvolto nella foschia: umidità della notte, malgrado un clima che secca le fauci, sabbia del deserto portata dal soffio ininterrotto del vento caldo o inquinamento? Nel corso della giornata, però, il cielo diventa più nitido e blu e si sale fino a 40°C. La sera, la temperatura è perfetta.

In attesa di lasciare il paese, dobbiamo comunicare in anticipo dove andremo e cosa faremo. In compagnia del nostro angelo custode dall’inglese impeccabile perfezionato a Teheran, la prima tappa è il lago sotterraneo di Köw Ata, dove ci immergiamo quasi al buio, a 150 metri sotto terra, nell’acqua sulfurea a 34°C. Ciononostante, mentre fuori si boccheggia, sotto la volta grottesca ci godiamo il fresco per un po’.

Tornando in città, visitiamo due moschee gigantesche che brillano al sole, entrambe simboli maestosi dell’orgoglio nazionale: una costruita a Geok Depe in memoria dell’eccidio del 1881 di 15.000 turkmeni da parte dei russi e l’altra, la più grande dell’Asia centrale, subito dopo l’indipendenza.

Daniela Rocco

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