Sull’orlo dell’abisso

Partiamo per rientrare una seconda volta in Uzbekistan (che avevamo lasciato dopo Samarcanda) e arrivare a Tashkent, la capitale. Ad accompagnarci fino al confine sono sempre i nostri prodi autisti. Il sorridente Ramaz, pamiro d’hoc, ci ha salutati stamane: ripartirà oggi stesso per Khorog, il che significa due giorndi i viaggio. Bella tempra.

Ormai ci siamo affezionati ai nostri driver, pur non potendo comunicare un granché se non con l’intermediazione della nostra carinissima Adiba “mondiale” (per alcuni, il suo volto e i suoi occhi fanno tanto America latina, per Carlo e Lizzi, abituati ai mari del Sud, potrebbe essere scambiata per una polinesiana). Ma lei è una e noi siamo 13.

Sempre circondati da un’enciclopedia geologica, ci toccano naturalmente altri sorpassi da cardiopalma e una ruota a terra in un punto strategico. Vediamo perfino le carcasse di alcune jeep giù per i dirupi. Più di una volta mi sono sentita in bilico sull’abisso. Forse era più un’impressione, perché la strada era quasi sempre abbastanza larga per farci passare due mezzi, ma vista la mancanza di parapetti e l’altezza raggiunta (il passo di oggi era a 3380 metri), mi sentivo uno yak in cammino su una mulattiera.

Per ammazzare il tempo, o forse la paura, leggo anche oggi qualche pagina di Amelie Nothomb, che ci rapisce tutte, Camilla, Maddalena e me che condividiamo la jeep da qualche giorno. Una pura coincidenza ci fa incappare in Marco Polo pure qui, tra le sue pagine surreali, dove un personaggio lo chiama in causa a proposito della libertà dai legami che bisogna sentire per rinunciare alle certezze e abbracciare l’ignoto.

Guadagniamo la strada asfaltata, frullati e con il sedere piatto. E finalmente, all’orizzonte, il confine. Per fortuna, non è stata la solita solfa e in un’ora e mezza siamo dall’altra parte.


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