Ramaz, TerraMadre e il vino “cangiante”
Sulla strada di ritorno a Tblisi, mentre si fanno altre campionature, chiedo a Ramaz, che è sempre stato col nostro guppo per questi primi tre giorni del viaggio, di raccontarmi l’incontro con TerraMadre e i suoi progetti per il futuro.
“Nel 2003, alcuni amici portarono tre giapponesi a casa mia. Quando uno di questi, membro di Slow Food in Giappone, mi vide prendere del vino dalla kvevri (lo speciale orcio di terra cotta in cui fermentiamo e conserviamo il vino), la sua prima reazione fu diffidenza: si trattava di un metodo insolito e ai loro occhi poco sicuro… Ciononostante, al suo ritorno scrisse a TerraMadre per raccontare della nostra antica tecnica; e fu così che Lilia Smelkova mi contattò per saperne di più e che io mi ritrovai a Torino, alla prima edizione di Terra Madre del 2004. Accettai l’invito con altre persone, anche se all’inizio non sapevo cosa aspettarmi: nessuno, qui in Georgia, conosceva il progetto e la missione di TerraMadre. Ma quando vidi riunite insieme tutte quelle persone provenenti da ogni parte del mondo – agricoltori, allevatori, apicoltori, vinificatori e indigeni di regioni mai sentite – rimasi completamente stordito. La cosa fantastica che toccai con mano, è che, al di là delle differenze di lingua e di cultura, i farmer sono farmer ovunque: parlano sempre col cuore. Mi sembrava di aver a che fare con parenti e amici. Ognuno svelava all’altro senza remore o gelosie i preziosi metodi custoditi da sempre, non certo per essere tenuti segreti. Era il luogo giusto, TerraMadre, dove condividere davvero ansie e progetti per il futuro con chi fa la tua stessa vita. Al termine dei meeting, il nostro gruppo, che comprendeva anche dei giovani, fu ospitato insieme a un gruppo di equadoregni e di americani a casa di un piemontese socio di Slow Food. Lì, vivemmo un’esperienza di scambio e di amicizia che non dimenticherò mai. A dire il vero, poiché mangiavamo e dormivamo sempre a casa di italiani, avevamo tutti i giorni la possibità di stringere rapporti bellissimi.
Tornato a casa, mi misi ad approfondire tutto quanto c’era dietro quell’esperienza entusiasmante e mi domandai che cosa potevamo fare insieme, io e Slow Food. Lilia, allora, mi mostrò come funziona l’organizzazione e mi propose di diventare il responsabile di un convivium, insieme a cinque parenti (convivium = gruppo di persone che si prefigge di condividere iniziative e progetti per valorizzare e commercializzare il proprio prodotto con il sostegno di Slow Food). Naturalmente accettai: TerraMadre poteva essere davvero l’occasione per aiutarci a riconquistare il potere di decidere cosa e come produrre, a migliorarne la qualità, a raggiungere quegli standard necessari a commercializzarlo con soddisfazione anche all’estero senza per questo rinunciare ai nostri prodotti tradizionali.”
Non solo mercato, dunque, ma identità, libertà di decisone, guadagni sostenibili… In due parole, sovranità alimentare o qualcosa che gli assomiglia molto.
“Il mio convivium – riprende Ramaz – divenne così la prima orgnaizzazione di Slow Food in Georgia e oggi conta 33 persone. Il prodotto da salvaguardare su cui ci siamo concentrati noi è il vino. Mio bisnonno, come i suoi avi fin da prima della rivoluzione, produceva vino in anfora. Con l’avvento dei kolkoz collettivi, però, la possibilità di decidere da soli scomparve, perché si doveva seguire il piano quinquennale stabilito dal governo. I produttori potevano coltivare “privatamente” solo un fazzoletto di terra sufficiente al consumo familiare. I sovietici, naturalmente, eliminarono la produzione tradizionale del vino trasformandola in produzione industriale nel senso più pesante del termine (standardizzazione e abbassamento della qualità…). Mio padre lavorava in una di queste industrie, che produssero perdita del sapere e delle tecniche tradizionali, o, almeno, la loro drammatica sepoltura. Un giorno, avevo 16 anni, andai a trovare mio nonno materno in un piccolo villaggio sperduto sul Caucaso e lui mi fece assaggiare del vino conservato in un’anfora sotto terra. Rimasi folgorato e mi resi conto di ciò che era andato perso e della differenza abissale tra quel vino e quello che eravamo stati costretti a produrre da tempo… E poiché, sepolte nel giardino di casa, c’erano ancora anfore vuote, le ripulii e mi andai a leggere tutto il possibile sulle procedure per ottenere il vino del nonno: i testi erano tutti precedenti alla rivoluzione. Mio papà aveva anche il tino di calce e pietre su cui pestiamo l’uva a piedi nudi, cosa che mi permise di mettermi subito alla prova. Infatti, pestai l’uva e la misi a fermentare con una quantità di bucce pari al 5% del volume dell’anfora, secondo la tradizione di Imereti che dà al nostro vino un colorito dorato (la tradizione di Kakheti prescrive invece una quantità di bucce maggiore).
Il 7 gennaio successivo, quando qui si ammazza il maiale per festeggiare il Natale ortodosso di rito georgiano, invitai parenti e amici e gli feci assaggiare il mio vino. Tutti volero sapere come lo avevo ottenuto e fu così che l’anno dopo ogni vicino fece la sua “anfora”. Tutti, infatti, erano riusciti ad ottenerne una dal nonno, acquistandola, scambiandola o ricevendola in dono.
Slow Food, inoltre, ci ha stimolato a non vendere soltanto l’uva ma il prodotto finito.
Il “problema” è che poiché al nostro vino non aggiungiamo niente – non conservanti, né solfiti, lieviti naturali o altro – è piuttosto difficile mantenere le stesse qualità organolettiche su tutta la produzione. Ma anche se grandi aziende vinicole mi hanno chiesto di usare quegli straordinari lieviti che servirebbero allo scopo, io preferisco mantenere per il mio vino la qualità artigianale, anche se quuesto vuol dire anche mai uguale a se stesso. Anche perciò, Slow Food ci ha messi in contatto con due enologi liguri che importano vini naturali e biologici da tutto il mondo.”
Chiedo a Ramaz qual è il suo sogno oggi.
“Trasformare l’attività dei 10 produttori di Kaketi e degli 8 di Imereti in un’attività sostenibile per la gente del posto, che permetta cioè, a chi lo desidera, di restare e di vivere della nostra particolare vinificazione.”
Lo abbraccio per salutarlo, guardo la sua pelle, chiarissima come gli occhi, e penso a un amico sardo che gli assomiglia moltissimo. A quei miscugli a volte insospettati tra le genti più diverse e lontane, che un giorno potranno forse essere rivelati dalle ricerche come quelle di Pio, il genetista del team con una passione sfegatata per la genetica delle popolazioni, quella branca della genetica che racconta di spostamenti, di isolamenti e di incroci tra uomini di tutti i tempi attraverso lo studio del DNA.
Daniela Rocco
Grazie mille Daniela, vi auguro successo.
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