Il deserto nero – parte II

Parte seconda

I vulcani di fango di Gasan Kuli, ai confini con l’Iran; il golfo di Kara Bogaz Gol, in contatto col Caspio attraverso un canale di soli 250 m, tale per cui l’acqua entra nel golfo con rombo di cascata. Il lago sotterraneo di Köw Ata, non lontano da Asgabat, dove vorremo rinfrescarci dai torridi 50°C dei. Il cratere infuocato di Darwaza che di notte illumina il deserto a chilometri di distanza, alimentato da metano (il Turkmenistan è uno dei maggiori produttori al mondo di questo gas). E ancora, la Riserva Naturale di Badkhyz, chiamata anche Ngoro-Ngoro del Turkmenistan per via dell’enorme depressione che ospita alcuni laghi alle cui rive vanno ad abbeverarsi il rarissimo kulan (l’asino selvatico), la gazzella djeiran, il varano del Karakum, e un’infinità di insetti, rettili e uccelli. Per finire con la Riserva del Deserto di Repetek, sorta di fortezza Bastiani – una manciata di baracche tra le dune del Karakum – a difesa di un boschetto di saxaul, piante che paiono morte stecchite e che, invece, semplicemente hanno ridotto le foglie ai minimi termini per contrastare l’evaporazione dell’acqua.

Chissà perché, di tutte queste meraviglie dalle nostre parti non si parla: mai un documentario in TV, mai un articolo sui giornali.

Forse è un effetto collaterale del fatto che, tranne poche eccezioni, questo “quarto vuoto” del mondo sia stato difficile da possedere in termini geopolitici, e quindi anche culturali.

Anche se ciò non è valso per Alessandro Magno, che, nella sua ansia di vivere alla grande, da queste parti ha sollevato un vero polverone: le ha suonate a Ciro, ha fondato città a destra e a manca, e poi ha tirato dritto per l’India. Né è valso per altri due bei tipetti come Genghis Khan e Tamerlano. Che prima di trasformare l’area in un giardino di delizie con capitale Samarcanda, e di garantire il passaggio sicuro per almeno 200 anni alla Via della Seta (tanto che fu proprio grazie alla pax mongolica che Marco Polo poté viaggiare fino in Cina), misero l’area a ferro e fuoco decapitando intere città e popolazioni.

I Russi, invece, faticarono non poco: vari inviati di vari imperatori, a partire da Pietro il Grande, col chiodo fisso di garantire alla frontiera sud dell’Impero saldi bastioni (il che voleva dire arrivare ai contrafforti montuosi di Iran, Afghanistan e Cina, pappandosi quindi tutta l’Asia Centrale), se la dovettero vedere con i rigori del deserto che, tra le risate dei Khan di Khiva e di Buchara, spazzò via interi corpi di spedizione.

L’impunità garantita ai khan dalla protezione del deserto consentiva loro anche di comportarsi da veri despoti e di avere il controllo sui traffici della regione. Evidentemente, però, non conoscevano il detto russo “Ridevamo, compravamo, vendevamo, poi facemmo i conti e ci mettemmo a piangere”. Infatti, picchia e ripicchia, lo zar il deserto finì col papparselo tutto, e i khan dovettero far fagotto. Da quel momento, la storia di KK fece tutt’uno con quella della grandeur prima russa, che tagliò il deserto con strade e ferrovie; e poi sovietica, che negli anni ’50 del ‘900, iniettò nell’aridità del deserto una “flebo” di dimensioni titaniche: il Canale del Kara Kum.

Se, da un lato, tutta quell’acqua ha contribuito a traformare le rive del canle, lungo circa 1500 km, in un giardino verde che produce cotone in quantità, dall’altro ha determinato la drastica diminuzione della portata del fiume Amu Darja, dissanguato anche sulla sponda orientale uzbeka agli stessi fini: la produzione di cotone. Morale, il lago d’Aral, che era alimentato dalle sue acque, si è ridotto a tal punto da determinare uno dei disastri ecologici più gravi del pianeta. Ma questa e tutta un’altra storia.

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