Gita con test ai Sette Laghi

È un asino che raglia, non un gallo, a svegliarci verso le 4 di mattina; ma noi continuiamo a sonnecchiare cercando di strappare qualche istante di riposto in più. Quando sgusciamo dal sacco a pelo, verso le sette, la vita fuori è già in moto da un po’. Dopo colazione partiamo verso la località Sette Laghi, inerpicandoci su per una bella valle, costellata da laghi verdeblu, sempre più ampi man mano che saliamo. Siamo diretti al villaggio di Rashni Poyon dove faremo un’altra campionatura. La voglia di fare un tratto a piedi è tanta, ma non siamo certi delle distanze, il sole comincia a farci sentire e a dire il vero non siamo proprio in perfetta forma.

Salendo, passiamo piccoli villaggi di terra e paglia con le case a parallelepipedo dal tetto piatto, del tutto simili a quelle dei Pueblo, gli indiani stanziali degli Stati Uniti del sud. Pure le scale che portano al tetto che fa da terrazzo sono identiche.
La valle è ricca di cascate, ruscelletti, radure verdi, asinelli su mulattiere. In alto, il grigio aspro della roccia culmina a volte nei francobolli di ghiaccio perenne. Forse, anche qui sempre più ristretto.

Giunti al settimo lago, gli autisti non resistono e si tuffano, poi è la volta della nostra bella interprete che fa il bagno vestita. Vorremmo avere la stessa tempra anche noi, ma l’acqua è di ghiaccio. Ritorniamo indietro di un po’, questa volta a piedi, e ci accomodiamo a casa del maestro del villaggio dove mangiamo, oltre al resto, il chakka, un ottimo yogurt dal forte sapore caprino. Tutto intorno, le pareti sono fatte di nicchie di legno lavorato, e dentro libri di scuola: fisica, geografia…
Qui al villaggio si allevano capre, si coltiva frutta e verdura e un po’ di tabacco, ovviamente senza l’ombra di fertilizzanti o diserbanti. “Non si vende però; non c’è modo di promuovere. Mancano il marketing, ‘i buyer’,” dice Jumaboy sorridendo.

Mentre si campiona in sala da pranzo, appena fuori, sul tradizionale divano con “ringhiera, un signore grinzoso dagli occhi chiari e sorridenti e dall’età indefinibile ci racconta le leggende dei sette laghi. E a proposito dei ghiacci sulle montagne dice: “Erano molto più grandi quando ero più giovane”. Lizzi è trattenuta dalle donne che fanno il pane, ma questa volta non è un bello scambio… Peccato. Sarà, pure qui, il tempo che manca? Chi siamo noi ai loro occhi? Jumaboy non sembra avere rapporti di vecchia data tra questa gente…

Al nostro ritorno, prima di cena, un cieco vestito di tutto punto intona una nenia e suona uno strumento a corde. È il papà dei due fratellini Mehrobsho e Slomsho di 13 anni e 12 anni, che girano sempre qui intorno, nel cortile-terrazza che ci ospita, e ci guardano coi loro grandi occhioni.
Le facce dei grandi non sorridono quasi mai. Sono maschere scolpite. Gentili, ma mute. È terribile non poter scambiare qualche parola. Strana atmosfera… Altrove, però, nei giorni scorsi, la lingua non è stata un gran problema.

Gli unici a sorridere, seppure in silenzio, sono gli sguardi dolcissimi e intelligenti dei due fratelli. C’è anche Minia Savut, più o meno della stessa età. Sono incuriositi dal Mac su cui prendo appunti. Indicano lo schermo “Foto, Foto!” Così, decido di mostrargliene alcune. Non faccio scorrere quelle fatte qui al villaggio, ma le immagini splendenti delle cupole di Samarcanda e di Bukhara lontane anni luce … Appena comincio, però, mi chiedo che cosa sto innescando. Ci sono mai stati? Ci andranno mai? Poi mi ricordo: il lavoro stagionale degli abitanti del villaggio in Russia e nel resto del Tajikistan; l’incidente che ha reso cieco il papà a Samarcanda… Un’esistenza già a metà strada tra passato e futuro. Ci attende una seconda scomodissima notte. Domattina partiremo per la capitale Dushanbe, passando per un altro villaggio e altri test.

Daniela Rocco

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