Caspio, che mare!
Ed eccoci a Baku, capitale dell’Azerbaijian e del petrolio fin dai tempi delle prime corse all’oro nero di fine Ottocento. Una passeggiata verso il lungomare ci porta tra l’infilata degli opulenti palazzi fin de siecle del centro storico, pittati di color crema e tempestati dalle vetrine dei più bei nomi della moda internazionale – nessuno escluso! Tanto che ci chiediamo se per caso non siamo finiti a Montecarlo.
Sul blu del mare, l’intreccio dei pali delle torri di trivellazione petrolifera ritaglia in mille tessere la distesa sconfinata del Caspio, il più grande bacino chiuso del mondo.
Lungo 1200 chilometri, largo in media 310 chilometri, profondo 995 metri, a vederlo dallo spazio lo si definirebbe un lago. Ma si dice che a battezzarlo ufficialmente “mare” siano stati per primi i legionari romani. Che, assaggiata l’acqua, dissero: “Mmhhh, salata!”.
A voler essere pignoli, tecnicamente si parla di “mare” quando si misura una salinità di almeno il 30 per mille. E qui siamo invece a uno scarso 15 per mille nella parte meridionale del bacino, con valori attorno al 5 per mille nel settore settentrionale, lì dove sfocia il fiume Volga; e del 30 per mille solo all’interno del bacino semichiuso del grande golfo di Kara Bogaz Gol. In altri termini, il bacino settentrionale è dolce, quello meridonale salmastro; e solo il Kara Bogaz ha le carte in regola per essere etichettato “mare”.
Ma, appunto, giusto di etichette si tratta, perché il bacino chiuso del Caspio comunque se lo merita l’appellativo di mare, se non altro per le sue dimensioni, pari a quasi quattro volte il Mare Adriatico tanto caro al nostro Marco Polo.
Dal punto di vista della facilità delle comunicazioni il Caspio non è stato, nel corso della storia, una via altrettanto aperta e trafficata quanto lo furono, per esempio, il Mediterraneo in epoca antica, o l’Atlantico nel Rinascimento. Troppo diverse tra loro le popolazioni che ne abitavano le coste: al di qua dal Caspio, gli agricoltori stanziali del Caucaso; di là, sulla costa orientale, i nomadi turcomanni del deserto del Kara Kum. Sulla riva meridionale, la raffinata cultura persiana; su quella settentrionale, l’impero zarista in espansione.
E, infatti, lo scontro tra queste culture fu continuo: i caucasici cristiani si difendevano dall’espansionismo persiano, che a sua volta doveva difendersi dalle incursioni dei pirati turcomanni, alla perenne caccia di schiavi da vendere sui mercati di Bukhara e di Khiva. Razziatori talmente molesti da indurre i Persiani a costruire il bastione di sbarramento più imponente del mondo dopo la Grande Muraglia Cinese: la Grande Muraglia di Gorgan, lunga 195 chilometri. Anche i Turcomanni avevano qualcuno da cui guardarsi: i cosacchi dello Zar. Che a partire dalla fine del Settecento fecero molti sforzi per penetrare il Turkestan da nord e da sud. In quest’ultimo caso, una spedizione giunta via mare sulla riva meridionale del Caspio costruì la prima testa di ponte: il forte di Krasnovodsk, oggi Turkmenbashi.
Lo strapotere degli zar prima, e quello sovietico dopo, hanno fatto del Caspio una pozzanghera nella quale si è scaricato di tutto e dalla quale si è pescato soprattutto caviale e petrolio.
Il primo è un bene di lusso: si tratta delle uova della specie più pregiata al mondo di storione. Un pesce talmente sfruttato da correre pericolo di estinzione.
Il secondo, viste le odierne dinamiche mondiali di consumo energetico, bene di lusso lo diventerà tra non molto. Per la gioia dell’Azerbaijian che, oltre a possedere ricche riserve in casa, è crocevia di passaggio di alcuni oleodotti che corrono tra queste aree e il Mediterraneo, e che addirittura potrebbero allungare i loro “tentacoli” direttamente sul fondo del Mar Caspio, su a nord, verso il Kazakistan.
Con buona pace degli storioni che, disturbati dal rumore e dalle perdite di gas di quei pozzi indispensabili a dare lustro a Baku e luce alle nostre case, si ridurranno purtroppo al lumicino.