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Dall’autobiografia
Quando incominciai a frequentare la scuola, il mio interesse per la storia naturale e specialmente il desiderio di far collezioni era ben sviluppato. Tentavo di trovare il nome delle piante e facevo raccolta di ogni sorta d'oggetti: conchiglie, sigilli, bolli, monete e minerali. La mania di far collezioni, che può condurre un uomo a diventare un naturalista sistematico, un conoscitore d'arte oppure un avaro, era molto pronunciata in me e sicuramente innata, poiché nessuno dei miei fratelli o sorelle ha avuto mai tale gusto.
Niente è stato tanto sfavorevole allo sviluppo della mia mente quanto la scuola del dottor Butler, che era esclusivamente a indirizzo classico, e nella quale non si studiava niente altro che un po' di storia e di geografia antiche. Tale scuola fu per me assolutamente priva di valore educativo. Per tutta la vita non fui capace di servir mi perfettamente di una qualsiasi lingua.
Mio padre non aveva un intelletto scientifico e non cercava di sistemare le sue conoscenze secondo leggi generali; però formulava una sua teoria su quasi tutti gli avvenimenti. Non credo di essermi avvantaggiato molto, intellettualmente, dalla sua vicinanza; ma dal punto di vista morale il suo esempio ha certo insegnato molto a tutti noi figli.
Se tento di ricostruire il mio carattere nel periodo scolastico, riandando nel passato come meglio posso, devo riconoscere che le sole qualità che facevano sperar bene per il futuro erano gli interessi spiccati e diversi, l'ardore con cui mi applicavo a ciò che mi interessava e il vivo piacere che mi dava la comprensione di argomenti o fatti complessi.
Nei primi anni di scuola ogni ragazzo aveva una copia delle Meraviglie del mondo [Wonders of the World], che io leggevo spesso discutendo poi con altri ragazzi sulla veridicità di alcune affermazioni. Penso che sia stato questo libro a suscitare in me per la prima volta il desiderio di viaggi in contrade remote, desiderio che fu finalmente esaudito dal viaggio sul Beagle.
Ben presto mi convinsi, in base a diverse piccole circostanze, che mio padre mi avrebbe lasciato un patrimonio sufficiente per vivere con una certa comodità; non avrei mai immaginato di diventare ricco come sono ora, tuttavia a quel tempo tale convinzione fu sufficiente ad arrestare il mio migliore impegno di studiare medicina.
Quando ebbi trascorso due sessioni a Edimburgo, mio padre capì, o seppe dalle mie sorelle, che non gradivo l'idea di diventare medico, e pensò di farmi pastore evangelico. Il pensiero ch'io diventassi un ozioso, interessato solo a qualche sport, come allora sembrava probabile, lo preoccupava giustamente.
Pensando ai violenti attacchi che mi hanno rivolte gli ortodossi, sembra ridicolo che un tempo abbia voluto fare il pastore. Questa intenzione e il desiderio di mio padre non furono mai revocati formalmente, ma morirono di morte naturale quando lasciai Cambridge per imbarcarmi sul Beagle come naturalista. Se si deve credere ai frenologi, io ero adatto, sotto un certo aspetto, a fare il pastore. Alcuni anni fa il segretario di una società tedesca di psicologia, mi pregò vivamente di inviargli una mia fotografia e qualche tempo dopo ricevetti gli atti di una riunione, da cui risultava che la forma della mia testa era stata oggetto di pubblica discussione, e che uno dei relatori vi aveva riconosciuto un bernoccolo della religione cosi sviluppato che sarebbe stato sufficiente per dieci preti.
In seguito, quando presi confidenza con Fitz-Roy, seppi che per colpa della forma del mio naso avevo corso il rischio di essere respinto [a bordo del Beagle]. Egli era un ardente seguace di Lavater ed era sicuro di poter giudicare il carattere di un uomo dai suoi lineamenti; perciò credeva che col mio naso non potessi avere l'energia e la determinazione sufficienti per quel viaggio. Credo che in seguito si sia convinto che il mio naso non diceva la verità.
Il viaggio sul Beagle è stato di gran lunga l'avvenimento più importante della mia vita e quello che ha determinato tutta la mia carriera. […] Ho sempre avuto coscienza che a questo viaggio io debbo il primo vero allenamento della mia intelligenza e la mia prima istruzione. Nel corso di esso potei dedicarmi direttamente a diversi campi della storia naturale, e perfezionai le mie capacità di osservazione, che erano già abbastanza sviluppate. Debbo dire a questo proposito che l'osservazione diretta della geologia di tutti i luoghi che visitammo fu per me l'esperienza più importante, perché entrava in gioco il ragionamento.
Se mi volgo indietro, posso vedere come il mio amore per la scienza abbia gradualmente preso il sopravvento su qualsiasi altro interesse. Nei primi due anni la vecchia passione per la caccia sopravvisse quasi immutata: io stesso uccidevo tutti gli uccelli e gli altri animali per la mia collezione. Ma a poco a poco rinunciai al fucile, fino a cederlo al domestico, perché la caccia interferiva con il mio lavoro […].
Nell’ottobre 1838, cioè quindici mesi dopo l’inizio della mia ricerca sistematica, lessi per diletto il libro di Malthus sulla Popolazione [Essay on the principle of Population] e poiché, date le mie lunghe osservazioni sulle abitudini degli animali e delle piante, mi trovavo nella buona disposizione mentale per valutare la lotta per l'esistenza cui ogni essere è sottoposto, fui subito colpito dall'idea che, in tali condizioni, le variazioni vantaggiose tendessero a essere conservate, e quelle sfavorevoli a essere distrutte. Il risultato poteva essere la formazione di specie nuove. Avevo dunque ormai una teoria su cui lavorare, ma ero cosi preoccupato di evitare ogni pregiudizio, che decisi di non scrivere, per qualche tempo, neanche una brevissima nota.
Credo che il successo dell'Origine si possa attribuire al fatto che già molto tempo prima avevo scritto due lavori molto compendiosi da cui avevo poi ricavato un manoscritto più ampio, che era di per se stesso un riassunto dell'Origine. Procedendo in questo modo avevo potuto scegliere i fatti e le conclusioni più importanti. Inoltre, per molti anni avevo seguito l'ottima regola di annotare subito e senza fallo tutto ciò che era contrario ai risultati generali della mia teoria: fosse un fatto, una nuova osservazione o un pensiero che mi capitava di leggere, perché avevo imparato per esperienza che i fatti e i pensieri contrari tendono a sfuggire dalla memoria più facilmente di quelli favorevoli. Per questa abitudine poche furono le obiezioni alla mia teoria che già non avessi considerato e a cui non avessi cercato di dare risposta.
a cura di Simona Cerrato e Eugenio Melotti