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Istante zero

133 big bang, un osservatorio partecipativo sulla ricerca scientifica in Italia.

big bang


Ulisse è nato per facilitare il dialogo tra il pubblico e il mondo scientifico e parla di tanti aspetti della scienza e della ricerca.
Nelle nostre discussioni in redazione siamo arrivati alla conclusione che non è possibile ignorare quello che sta succedendo in Italia al mondo scienfico e più in generale all'università e, ancora più in generale, all'istruzione. Alcuni anni fa abbiamo pubblicato una lunga analisi comparativa tra la situazione della ricerca e della formazione terziaria in Italia e nel resto del mondo, in particolare nell’Unione Europea. La conclusione era pessimista: "L'Italia è agli ultimi posti per quanto riguarda la quota di finanziamenti alla ricerca sul PIL, ma è ancora più indietro per quanto riguarda l'incremento di questa quota durante gli ultimi anni disponibili. L'Italia è all'ultimo posto per numero di ricercatori sul totale di persone attive (meno del 3 per mille, la Finlandia ne ha 13 per mille), ma si trova all'ultimo posto anche nell'incremento di questo numero negli ultimi cinque anni e, quello che è più inquietante, è l'unico paese con un incremento negativo. L'Italia si trova all'ultimo posto come numero di PhD. L'Italia è negli ultimi posti della classifica della bilancia tecnologica dei pagamenti, ma è all'ultimo posto nella variazione incrementale (anch'essa negativa) di questa classifica negli ultimi cinque anni. Si potrebbe continuare con questo elenco deprimente… Si è parlato recentemente di declino industriale dell'Italia. Se è così, bisogna parlare a maggior ragione di declino scientifico. L'Italia non ha certo una tradizione scientifica recente paragonabile a Germania, Gran Bretagna o Francia, e ancor meno agli USA. Tuttavia ha una storia scientifica invidiabile con punte di assoluta eccellenza. Purtroppo quello a cui abbiamo la sfortuna di assistere in questi anni è il lento e apparentemente inarrestabile declino (rinuncia?) di questo ruolo sulla scena mondiale. Di fronte alla passiva accettazione di questa deriva è difficile sottrarsi alla raggelante impressione che il ceto politico italiano (con poche eccezioni) abbia dato per ormai persa o irrilevante la battaglia della ricerca e della innovazione."

Ma la diagnosi lasciava nonostante tutto uno spiraglio: "Per l'Italia non è troppo tardi e non è troppo difficile. Ci vuole un po' di coraggio, ma ancora di più la consapevolezza che, continuando lungo questa china, stiamo preparando un avvenire di povertà e subalternità per i nostri figli."

Purtroppo, rispetto a cinque anni fa, le cose sono cambiate solo in peggio, con un’accelerazione improvvisa negli utimi mesi, Le misure di risparmio adottate di recente dal governo, il taglio in cinque anni del 10% dei fondi ordinari dell'università, il limite del 50% nell'avvicendamento dei pensionamenti del personale universitario (per non parlare dei tagli alla scuola primaria), non permettono più nessuna illusione: la scienza e la cultura scientifica in Italia sono in pericolo. Decenni di sottofinanziamento dell'università e della ricerca hanno ridotto il sistema universitario a uno stato tale di prostrazione che queste misure rischiano di dargli il colpo di grazia definitivo. Ma quello che preoccupa di più sono le implicazioni per i giovani. Il limite del 50% del turnover annuale (quando il 100% sarebbe insufficiente) significa che le porte per entrare nell'università e nella ricerca per i giovani ricercatori sono praticamente sbarrate. Basta un piccolo confronto: gli addetti alla ricerca in Italia sono circa il 3 per mille della popolazione attiva, in Finlandia sono il 13 per mille; e una semplice constatazione: l'Italia è forse l'unico tra i paesi sviluppati e in via di sviluppo che invece di aumentare lo sforzo in scienza e innovazione lo sta diminuendo.
L'Italia sembra avere imboccato la via di una involuzione sociale e produttiva pericolosa, in cui alla ricerca scientifica è riservato un ruolo marginale se non irrilevante. Questa è la strada maestra per il sottosviluppo. In una recente trasmissione Piero Angela ricordava un disastro della seconda guerra mondiale come esempio delle conseguenze nefaste del disinvestimento in scienza e tecnologia: la disfatta della marina italiana (priva di radar) alla fonda nel porto di Taranto, imputabile solo ad arretratezza tecnologica. Naturalmente ci auguriamo di cuore che l'Italia non venga mai più coinvolta in conflitti simili, ma l'esempio è quanto mai calzante anche se limitato. Disinvestire nella scienza e nella ricerca porta a un disastro molto peggiore di una battaglia persa. Purtroppo non sembra ci sia consapevolezza del pericolo né tra i politici né sui media. Anzi questo sembra trovare corrispondenza in una involuzione del clima culturale generale, una involuzione che è difficile confermare con cifre e dati, ma che è difficile negare: si avverte un’avversione generalizzata per tutto quello che è troppo complesso, per tutto ciò che richiede uno sforzo intellettuale; alla complessità dei problemi si risponde con scorciatoie semplicistiche; l'analisi scrupolosa sembra caduta in disuso, il lavoro serio, che richiede tempi lunghi, è guardato con fastidio; rappresentanti del mondo della scienza riconosciuti a livello internazionale vengono trattati con disprezzo (e tutto questo, sia detto incidentalmente, da parte di un giornalismo e da una classe politica che godono generalmente di pessima fama al di fuori dei confini italiani, in contrapposizione a un mondo scietifico che volente o nolente deve rapportarsi continuamente a un livello internazionale).

In queste condizioni è inevitabile che alla gravità del momento non corrisponda un’adeguata informazione del pubblico. Purtroppo l’immagine del mondo scientifico che arriva al grande pubblico non solo non corrisponde alla realtà ma ne è molto spesso una caricatura. Abbiamo sentito, nelle ultime settimane una pioggia di luoghi comuni negativi sull’università e la ricerca italiana. Qualsiasi ricercatore, professore o studente si è sentito offeso e perfino oltraggiato dalla valanga di generalizzazioni spesso ingiuriose che sono piombate sul mondo accademico (fannulloni, nepotisti, imbroglioni, somari e via insultando). È quanto mai necessario, per la sopravvivenza della cultura scientifica in Italia, che venga ristabilito nell’informazione quanto meno il senso delle proporzioni. È quanto ci proponiamo di fare in questa rubrica.

Intendiamo contribuire a dare un quadro, per quanto ci è possibile, quantitativo del mondo scientifico italiano: quanti sono gli addetti alla ricerca in Italia, che cosa fanno, quanti lavori producono, quante citazioni ricevono, ma anche di che mezzi possono disporre, come sono pagati, rispetto ai loro colleghi di altri paesi, quanti sono costretti a emigrare. Non intendiamo nascondere le critiche al mondo accademico, ma vogliamo farlo senza generalizzazioni indebite.

Loriano Bonora, direttore di Ulisse

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