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Mucche, maiali e pecore: e se fossero le peggiori minacce per la salute dell’ambiente?

Uno studio della FAO afferma che l'allevamento è una delle più importanti cause di degrado ambientale, superiore addirittura al traffico per quanto riguarda, ad esempio, le emissioni di gas serra.

Mucche al pascolo

Mucche, maiali, pecore e polli hanno guadagnato il dubbio onore di essere annoverate tra le paggiori minacce ambientali, secondo l’organizzazione delle Nazioni Unite per il cibo e l’agricultura (FAO).

La relazione, intitolata “Livestock's long shadow” (“La lunga ombra del bestiame”), afferma che l’industria dell’allevamento degrada l’ambiente, contribuendo all’effetto serra, all’inquinamento delle riserve dell’acqua, e distruggendo la biodiversità. In sintesi il settore è «uno dei principali contributori ai più seri problemi ambientali, a scala locale come a scala globale».

Gli autori inoltre avvertono che ci si aspetta, entro il 2050, il raddoppio della domanda di carne nel mondo; l’impatto dell’industria del bestiame deve quindi essere dimezzato, se si vuole evitare l’aggravarsi dei suoi effetti nocivi.

Il dato forse più impressionante della relazione è che il settore dell’allevamento è responsabile del 18% delle emissioni globali di gas serra, più che i trasporti, che ne emettono il 13,5%.

L’intero ciclo produttivo

La FAO ritiene che le emissioni derivanti dall’allevamento siano risultate così alte perché in questo studio i ricercatori hanno considerato l’intero ciclo produttivo. Sono state quindi incluse le emissioni generate dalla produzione di foraggio e fertilizzanti, dalla deforestazione necessaria a creare nuovi pascoli, dal trattamento del letame, e infine le emissioni prodotte dalle bestie stesse, e legate alla loro alimentazione e al loro trasporto.

Il bestiame richiede moltissima terra, occupando il 26% dei territori non coperti dai ghiacci. Il 70% delle aree deforestate in Amazzonia è adibito a pascolo, e il foraggio occupa un terzo della terra coltivata.

Non solo la deforestazione aumenta le emissioni di gas serra rilasciando il carbonio contenuto negli alberi, ma produce anche perdità di biodiversità. La relazione si spinge fino ad affermare che l’allevamento, che rende conto del 20% della biomassa animale terrestre totale, «gioca un ruolo di punta nella riduzione della biodiversità».

Sostenersi con l’allevamento

Incoraggiare la popolazione mondiale a diventare vegetariana non è però una strada percorribile. Tanto per cominciare, scrive l’autore pincipale della relazione Henning Steinfeld, non è un’opzione possibile per il miliardo di persone la cui sussistenza è legata all’allevamento.

Inoltre la produzione di vegetali non è essa stessa al riparo da problemi ambientali. Infine studi recenti hanno mostrato come le riserve mondiali di pesce non reggeranno ai livelli attuali di sfruttamento.

Steinfeld afferma che il problema principale dell’allevamento è soprattutto la quantità di terra che il settore occupa: "Dobbiamo scoraggiare la deforestazione indiscriminata per creare pascoli, di cui una larga parte avviene solo per poter speculare sul valore della terra».

Un’occupazione conveniente

In Amazzonia, dove il governo cerca di rafforzare il sistema legale, i coloni occupano porzioni di terra di nessuno e aspettano quindici anni prima che la consuetudine, e non la legge, gli riconosca il possesso della terra. Nel frattempo usare il terreno per l’allevamento è il modo più conveniente di tenere occupata la terra, spiega Steinfeld.

Infine, argomentano gli autori della relazione, servizi di rilevanza ambientale come l’acqua pulita dovrebbero avere un prezzo.

«Il più delle volte le risorse naturali sono gratis o sottopagate, il che conduce al super-sfruttamento e all’inquinamento», scrivono gli autori, concludendo che «un’aziione prioritaria deve essere raggiungere prezzi che riflettano il vero valore economico e ambientale».

Steinfeld suggerisce che si potrebbe cominciare a parlarne nel quadro delle negoziazioni per il futuro del Protocollo di Kyoto.


Catherine Brahic

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