Recenti studi suggeriscono che le politiche di conservazione dell'ambiente basate sul concetto di punto caldo non sono fra gli interventi più efficaci.
Alcuni ricercatori sostengono che chi si occupa di conservazione dell'ambiente deve imparare a scegliere meglio le aree dove concentrare i propri sforzi
Gerardo Ceballos, dell'Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM) e Paul Ehrlich, della Stanford University, USA, sostengono che il concetto di punto caldo per la biodiversità, che organizzazioni come Conservation International usano sin dalla fine degli anni ‘80, è troppo semplice per essere efficace.
I punti caldi vengono generalmente divisi in tre tipi: quelli delle specie endemiche che si trovano solo in una certa area, quelli relativi alle specie in pericolo e infine quelli a elevata ricchezza di specie, che ne contengono un numero più grande rispetto alla maggioranza delle altre regioni.
Ceballos e Ehrlich hanno mappato il 2,5 % dei più importanti punti caldi di ogni tipo per misurare il loro grado di sovrapposizione e hanno scoperto che questo è molto basso – solo il 16% di tutte le specie identificate nei punti caldi è stato ritrovato in tutti tre i tipi.
I ricercatori hanno poi controllato anche la sovrapposizione all'interno dei punti, per esempio hanno selezionato delle aree specifiche che contenessero il numero più alto di specie uniche. Basandosi sui risultati, hanno proposto degli “algoritmi di ottimizzazione” per coadiuvare gli interventi per la conservazione. Attraverso queste tecniche matematiche è possibile calcolare quale sia il massimo numero possibile di specie che possono essere protette nel minor numero di siti. “In questo modo si può assicurare la maggiore protezione nella minore area” spiega Ceballos.
Ceballos però sottolinea che la conservazione ha bisogno anche di essere “la più complessa possibile”, attraverso l'utilizzo approcci diversificati. Come per esempio, sostiene, migliorare la gestione del territorio, sia dentro che fuori i punti caldi.
Cita la Costa Rica, dove l'azione comune di educazione e restrizioni governative sembra aver portato a una riduzione dell'intensità della caccia. “Abbiamo misurato che in Costa Rica è rimasto solo il 7-8% delle foreste, ma il 70% dei mammiferi è ancora presente” dice Ceballos.
Jeffrey McNeely, responsabile della ricerca per la World Conservation Union (IUCN), concorda che una strategia da “arca di Noè” - che protegge un campione per ogni specie – ha poco senso.
Il ricercatore sottolinea che la IUCN ha fatto richiesta di protezione per il 10% di tutte le 300 regioni biogeografiche esistenti al mondo. Aggiunge però che questa politica può funzionare solo se accompagnata da un'appropriata gestione del territorio fuori dalle aree legalmente protette.
“Se gestisci bene il tuo territorio, proteggere per legge il 10% delle aree può essere sufficiente, ma se devasti le aree che non sono preservate attraverso un regolamento, il 10% non basta,” contiunua McNeely.
McNeeely crede che i punti caldi abbianno giocato un ruolo importante nel rendere più popolari i concetti di biodiversità e di conservazione. “Le persone hanno bisogno di concetti facili da capire, e quello di punto caldo sembra funzionare bene” dice e aggiunge che le organizzazioni internazionali hanno usato questo concetto per far sì che i governi investano denaro nelle politiche di conservazione.
Conservation International, per esempio, ha convinto il Madagascar che il suo stato di punto caldo per la biodiversità avrebbe potuto favorire lo sviluppo economico attraverso il turismo. “Di conseguenza il Madagascar ha allargato il numero di aree protette, aumentato gli sforzi verso l'educazione ambientale ed è diventato una destinazione turistica di maggior interesse rispetto al passato”, dice McNeely.
Ciononostante McNeely ammette anche che queste ricerche, se dimostreranno che l'approccio dei punti caldi non ha forti basi fattuali e suggeriranno modi migliori di impiegare i fondi, “saranno molto utili”.
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