Dopo una notte in un bell’albergo di Quito — sembra che il cambiamento di fuso orario non abbia lasciato molti strascichi in nessuno di noi… forse la tecnica di Alberto ha avuto i suoi effetti positivi — eccoci tutti a colazione pronti per l’ultima tappa di volo, con un aereo della Aero Gal, che ci porterà finalmente alla nostra destinazione.
Dall’alto si vede che Quito è veramente immensa. “Più di sessanta chilometri!” mi informa Alberto B., detto Albi (così non ci confondiamo con l’altro Alberto). “È una bella città — continua — mi è piaciuta. È bella… molto povera…”. “Siamo noi i fortunati… la maggior parte del mondo è povera,” dico io. “È vero” concorda Albi.
Le isole le vediamo dall’alto: piccoli brandelli di terra sputati dalle profondità terrestri neanche tanto tempo fa: le più antiche hanno infatti solo 4 o 5 milioni di anni.
L’arrivo a Baltra, l’isola con l’aeroporto, fa passare a tutti la stanchezza. L’aeroporto è all’aperto: in una landa deserta con cactus che spuntano un po’ ovunque è stata costruita, davanti alle piste, un’accogliente tettoia di legno dove passa il vento caldo che aspettavo. I fringuelli di Darwin ci danno il benvenuto, cinguettando sul muretto divisorio. Il sole: molto forte. Fuori dall’aeroporto sotto le gambe di una tartaruga di pietra, si acquatta un’iguana (vera!). I fringuelli continuano a cinguettarci intorno e a mangiucchiare quello che trovano in giro.
I nostri bagagli vengono caricati su un camion… vorremmo andare anche noi, ma invece prendiamo un autobus che ci fa attraversare l’isola: brulla, secca, cactus e altri arbusti contorti emergono dalle scure rocce laviche. Poi saliamo su un piccolo traghetto attraccato al pontile costruito sulla roccia: Amrit e io ci sporgiamo dal bordo della barca per toccare con le mani la lava indurita.
Il traghetto ci fa attraversare il breve tratto di mare che separa Baltra da Santa Cruz: la traversata non dura più di dieci minuti… ma bastano per vedere le sule che si tuffano in picchiata in cerca di pesci, i pellicani che si riposano tra le mangrovie che affondano i loro tentacoli nel mare verdissimo, altri uccelli marini che non riusciamo a identificare, i pesci palla che nuotano vicino all’altra sponda… A una natura così espansiva non siamo abituati. Conosciamo la nostra natura occidentale, addomesticata, timida e un po’ ritrosa. È più di quanto ci aspettassimo.
E non è finita. Sbarchiamo e saliamo su quattro pick-up che ci porteranno nella casa che ci ospiterà per le prime tre sere. Allontanandoci di pochi chilometri dalla costa e salendo un po’ in quota, il paesaggio brullo costellato di bianchi alberi di palo santo che si stagliano sul bruno della lava, lascia il posto a una boscaglia verde e umida: scalesia, banani, una vegetazione ricca, fitta, verde… non c’è traccia del deserto di prima. Sembra di essere in un altro posto. Sul bordo della strada vediamo una tartaruga. Entriamo nelle nuvole e comincia a piovere. Questo è l’opera di El Niño che quest’anno fa sentire i suoi effetti come mai prima.
I bambini hanno preso possesso della loro stanza, dopo lunghe e civilissime trattative per decidere chi dovesse dormire nel letto a castello in alto. Hanno giocato a calcio-risate e alla battaglia dei cuscini. Poi sono andati a trovare una famiglia vicino a casa: vivono in una casa con il tetto di metallo ondulato, senza bagno. Nel cortile vivono le tartarughe!
Simona Cerrato