Questa mattina Tommaso è stato baciato da una otaria. Poco dopo l’osservazione delle otarie che i bambini hanno fatto con Alfred sulla spiaggia di Gardner bay sull’isola di Española, le otaria sono state con noi tutto il tempo. E hanno preso confidenza. Oltre al bacio di Tommaso, anche Philippe, il cameramen francese, ha deciso che si trovava bene con loro e le otaria l’hanno accettato come uno di loro. “Io — dice Philippe — ero un’otaria maschio in una vita precedente… non era male: dormire, pescare e nuotare un po’, dare una controllatina al gruppo di femmine. Ogni tanto lanciare un urlo. Mi piaceva.”
Le otarie se ne stanno quasi tutto il tempo pigre afflosciate sulla sabbia. Tormentate dalle mosche. Poi una decide che deve andare chissà dove e si alza sulle pinne e avanza faticosamente trascinando la sua possente massa flessuosa, lo sguardo deciso verso la meta… dopo pochi passi, però, stanca dell’impresa, si accascia e rimane lì. Chissà dove voleva andare?
Nel pomeriggio, ci spostiamo a ovest di Española. L’approdo con il dinghi è difficoltoso perché bisogna sfruttare la calma tra le onde che arrivano forti sugli scogli. Le otarie ci osservano, come sempre, tra il curioso e lo scettico. Un sentiero ci conduce verso la scogliera, le mosche non ci lasciano in pace: ci sono otarie e iguane morte e le mosche fanno banchetto. I bambini sono un po’ impressionati degli animali morti. “È normale — dice Victor — questa è la natura. C’è un equilibrio…” ma i bambini non sono convinti.
Incontriamo prima di tutto una colonia di sule nazca: prima si chiamavano sule mascherate, ma i biologi hanno scoperto che queste delle Galápagos e quelle di altre isole davanti alla Colombia sono una specie a parte, e le hanno chiamate come la zolla continentale su cui poggiano le isole: la zolla di Nazca appunto. È la stagione della cova. Ci sono molti nidi con i piccoli. Le sule nazca fanno due uova, ma allevano solo un piccolo. Il fratello più forte scaccerà dal nido quello più debole. È crudele, ma è così. Una volta fuori dal nido, i genitori non lo riconoscono più e viene abbandonato a morire di fame. Amrit e Alberto ne vedono uno a cui è toccata questa sorte. È fuori dal nido, vivo. Il fratello deve averlo appena scacciato. La madre non lo guarda nemmeno. “Ma lui non si lascia scoraggiare… vedi: lui non rimane lì a lasciarsi morire!” Dice Alberto. “Nooo — conferma Amrit — lui va da solo a cercare cibo e se la caverà! E poi quando sarà grande si accoppierà e farà dei piccoli, e poi il pulcino forte manderà via quello più debole… come fanno tutti. Ma lui si ricorderà, e lo prenderà e lo alleverà… e questo pulcino diventerà grande e anche lui si ricorderà, e anche i suoi figli si ricorderanno, e così via e così via…”. “Sì e alla fine diventerà una specie nuova… La sula nazca raboida,” prevede Alberto. “Certo, perché mi ricordo che raboida in nepalese vuol dire sopravvissuto,” conclude Amrit. È una bella storia.
Dappertutto ci sono le iguane: su quest’isola, e solo su questa, sono rossastre. E sembrano ancora più pigre. Se ne stanno accasciate sulle rocce senza fare una piega. Sono le preferite di Alfred.
Più avanti ecco una colonia di sule piediblu. Sono tantissime. Anche loro con i loro piccoli nel nido. Queste non sono così crudeli e allevano anche fino a tre piccoli alla volta. In ogni caso tutti quelli che nascono a ogni covata. I piedi sono veramente di un colore intenso: azzurro cielo. Lo sguardo veramente molto stupido. Le femmine lanciano delle grida roche e i maschi rispondono con un fischio. Sono più piccoli delle femmine, perché durante l’accoppiamento le stanno sopra la schiena e la femmina deve rimanere in equilibrio. Alcuni si stanno corteggiando: il maschio offre alla femmina dei rametti e altri oggetti che dovrebbero servire a rendere più confortevole il nido. Poi allarga le ali. Avvicinano i becchi come per baciarsi.
Vediamo anche una sula dai piediverdi. Forse un giovane, ma la guida non ne ha mai viste. Secondo Alfred è una nuova varietà, e forse un giorno diventerà una specie. Lo chiederemo ai viaggiatori del futuro che verranno su questa isola.
Tra le sule piediblu, ci sono ancora alcuni albatross. Gli ultimi rimasti. Sono già partiti quasi tutti per il loro viaggio sull’oceano che dura anni. Arrivano alla fine di aprile, le femmine per prime e aspettano il loro compagno — sono molto fedeli e rimangono insieme per una vita. Quando si incontrano si fanno grandi effusioni. È commovente vederle. Poi si accoppiano e depongono le uova. Rimangono con i piccoli per due settimane, poi vanno in mare per cercare cibo. Si riempiono lo stomaco di calamari che trasformano in un olio nutriente. Tornati al nido pompano nel becco dei pulcuini affamati fino a due litri di questo olio. I pulcini si gonfiano come palle. Schifoso, ma nutriente. A fine dicembre se ne vanno. I piccoli diventati grandi prendono il volo dalla scogliera e rimarranno sull’Oceano Pacifico a volare per quattro anni, senza mai toccare terra. Si posano ogni tanto nell’acqua per riposarsi. Tornano a terra per la prima volta per accoppiarsi. E da quel primo accoppiamento ritorneranno ogni due anni. Sempre nello stesso posto. Sempre con lo stesso compagno. A camminare non sono granché, ciondolano di qua e di là senza grazia. Decollano prendendo la rincorsa e lanciandosi dalla scogliera a picco sulle onde.
E dalle onde, riceviamo l’ultimo straordinario saluto: il soffio dell’oceano. Le onde vengono incanalate in una profonda scanalatura tra rocce e vengono lanciate ad altezze strepitose. Il vapore si diffonde poi sull’altopiano dell’isola: una nebbiolina leggera che si rinnova a ogni soffio.
Simona Cerrato