“Terre vergini” Terre

“Il suolo è un corpo storico. Che riflette ogni variazione delle condizioni naturali e conserva tracce indelebili della millenaria attività economica dell’uomo. Per questo nell’URSS, alla ricerca delle nuove terre desertiche da irrigare, accanto agli specialisti di idraulica partecipano anche storici, archeologi, ed etnografi”

Così disse a fine anni settanta Dokhushaev, scienziato sovietico, a Vito Sanone, giornalista italiano. Dokhushaev, assieme agli scienziati di par suo, partì dal seguente ragionamento: se in aree oggi disabitate troviamo resti di antiche opere idrauliche – dighe, cisterne, canali sotterranei ecc. – vuol dire che queste terre in realtà sono buone per l’agricoltura.

Fatto qualche esperimento, e verificato che la fertilità in effetti era di cinque volte superiore a quella media, ecco che, a partire dagli anni cinquanta del Novecento – all’epoca del “faraone” Krushov – partì un megaprogetto di messa a coltura delle terre semiaride comprese tra la Steppa della Fame (e si tratta proprio del vero nome), nel Kazakistan nord-orientale, e il Mare d’Aral, nel Kazakistan nord-occidentale.

Il progetto prevedeva la realizzazione di enormi canali artificiali, il dissodamento di centinaia di migliaia di ettari, e financo la deviazione dei grandi fiumi siberiani, l’Ob e l’Irtys.

Ovviamente, tutte queste terre dovevano essere lavorate da esseri umani che, non essendo già presenti sul posto vista l’aridità del terreno, sarebbero dovuti giungere da altri lidi. Ma questo, come Stalin aveva già dimostrato durante il periodo delle Grandi Purghe, per il governo sovietico non è mai stato un problema. Come ebbe a spiegare Khabibulla Shagazatov, capo direzione lavori edili dell’epoca “Sono ancora numerosi, nelle regioni di montagna prive di terre coltivabili e di prospettive di sviluppo rapido, villaggi che sarebbe più razionale traslocare totalmente. In genere, queste zone sono sovrappopolate. La superficie lavorata per abitante valido è di un ettaro, mentre è di otto ettari nei nuovi sovkhoz”.

Già, i sovkhozl, le grandi aziende agricole collettive. Proseguì Shagazatov: “esiste una dimensione ideale dei Sovhkoz: 6500 ettari con un agglomerato di 2000 abitanti. Noi non costruiamo case con molti appartamenti perché ci siamo accorti che i contadini non si sentono a loro agio. Per procurarci la manodopera incoraggiamo in tutti i modi i trasferimenti collettivi nei nuovi sovkhoz, consapevoli che una persona sola di solito lascia a malincuore il paese natale e i parenti. Invece, quando è tutto il villaggio che trasloca, i rapporti tra la gente permangono”.

Poi, 30 anni dopo fu la volta di Gorbaciov e della glasnost, della trasparenza. E svanito il filtro dell’ideologia e delle “buone” intenzioni, si vide come stavano veramente le cose, e come tutt’ora stanno. Il suolo steppico semidesertico ha un sottile strato superficiale fertile che fa da coperta alla terra sottostante, ricca di sali. L’azione dilavatrice dell’acqua d’irrigazione, e l’azione degli aratri che ribaltano in profondità la terra, assieme a un uso sconsiderato dei fertilizzanti, ha innescato fenomeni di erosione, desertificazione e salinizzazione di entità ben più gravi di quelle molto più raccontate dai media occidentali a proposito dell’Aral. O meglio, di ciò che resta di questo ex mare.

Morale: le cose (il suolo, il clima…) cambiano e non è detto che terre buone per l’agricoltura in passato, lo possano essere per sempre. A dispetto delle testimonianze archeologiche.

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