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Materiali che si riparano da soli

Dopo lunghe ricerche è stato finalmente realizzato un tipo di materiale in grado di "aggiustare" qualsiasi rottura al suo interno. Il problema, però, è che uno dei suoi componenti è tossico.

Silicio al microscopio a scansione

In inglese li chiamano self-healing composite materials, ovvero materiali composti che sono in grado di "guarire" da soli.

Si tratta di un nuovo tipo di materiali attualmente allo studio, che potrebbero essere utilizzati ad esempio in aeroplani, ponti e turbine, e che hanno la proprietà di poter aggiustare da soli eventuali piccole rotture nella loro struttura.

La scoperta più recente arriva dagli Stati Uniti, dove è stato sviluppato un tipo di materiale self-healing particolarmente efficace.

"Quando una struttura subisce un cedimento, causato dall'eccessivo utilizzo e conseguente affaticamento, è quasi impossibile 'aggiustarla'. L'unica alternativa è sostituirla, o aspettare che ceda definitivamente", spiega Jeffrey Moore, lo scienziato che ha condotto lo studio alla University of Urbana, negli Stati Uniti.

L'introduzione di questi nuovi materiali potrebbe cambiare le cose. Si tratta infatti di materiali che contengono al loro interno piccole capsule di un liquido adesivo, che si aprono e lo lasciano uscire solo nel momento in cui è necessario, ovvero quando si produce una rottura all'interno della struttura del materiale stesso (clicca qui per vedere un video di come questi materiali possono riparare addirittura le pale di un elicottero. Il video appartiene al Beckman Institute Imaging Technology Group).

Il problema maggiore dei materiali self-healing è che, in seguito all'intervento "di emergenza" della sostanza adesiva, sarebbero necessari altri interventi successivi, come ad esempio l'esposizione ad alte temperature, per fare in modo che "la ferita" si richiuda del tutto.

L'obiettivo attuale delle ricerche è quindi quello di sviluppare un materiale autonomo, che sia in grado di riparare la rottura senza che sia necessario nessun ulteriore intervento.

Nel 2001 Jeffrey Moore e i suoi colleghi sono riusciti a sviluppare un materiale di questo tipo, utilizzando capsule adesive che contengono due tipi dversi di composti chimici.

Quando si verifica un "crack", ovvero una rottura all'interno del materiale, i composti escono dalle capsule in cui sono contenuti, si mescolano e fanno in modo che i due lati della frattura si incollino assieme.

Tuttavia, il materiale presentava ancora dei problemi. Al suo interno era infatti contenuta una sostanza chiamata rutenio. "Se si considera, ad esempio, che un aeroplano tipo Airbus dovrebbe contenere per coprire tutta la sua superficie oltre 27 mila chili del composto, solo in un aereo si utilizzerebbe quasi tutto il rutenio attualmente disponibile", spiega Jeffrey Moore.

Per questo motivo i ricercatori hanno cercano un'altra soluzione, e l'hanno trovata in una sostanza chiamata clorobenzene, che è in grado, nel momento in cui ripara una frattura, di restituire all'intera struttura il 100 per cento della stabilità iniziale.

"Abbiamo ancora qualche problema da risolvere. Per prima cosa, ancora non ci è molto chiaro come esattamente funzioni, e perchè funzioni così bene, questo gruppo di componenti che abbiamo recentemente sperimentato. D'altra parte, il clorobenzene sebbene sia una sostanza molto più economica e facile da ottenere di quelle che abbiamo sperimentato in precedenza, è purtroppo anche tossico", conclude Jeffrey Moore.

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